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Test di Medicina e anonimato violato. L’errore di un dirigente del ministero

L’alto funzionario scelto nel 2010 da Maria Stella Gelmini. Dietro la sentenza del Tar che ha riammesso 2.000 candidati, l’inutile codice alfanumerico associato ad ogni candidato. L’allarme inascoltato degli atenei

10/08/2014
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Corriere della sera

Michele Schinella

L’Università Cattolica del Sacro cuore di Roma l’ha coperto con la polvere dorata (quella dei Gratta&Vinci), ma non l’ha reso comunque invisibile. Altre, invece, hanno tentato di impedire che lo si potesse associare al nome del candidato utilizzando buste che si sono però rivelate trasparenti. Gli atenei, alla vigilia delle prove per l’ammissione alla facoltà a numero chiuso di Medicina per l’anno accademico 2014/2015 dopo avere letto le linee guida per lo svolgimento del concorso giunte dal Ministero il 2 aprile 2014 avevano lanciato l’allarme. La presenza sui fogli delle risposte e sulla scheda anagrafica dei candidati del codice alfanumerico accanto a quello a barre avrebbe potuto determinare la replica di quanto accaduto l’anno precedente: l’invalidità del test per violazione dell’anonimato. Ma i frenetici contatti con il ministero dell’Università a poche ore dalle prove dell’8 aprile hanno prodotto rimedi che si sono rivelati inefficaci se non peggiori del male. L’allarme è diventato un incubo due mesi e mezzo dopo. A partire dal 18 luglio 2014 i giudici del Tar del Lazio con varie ordinanze cautelari (e dunque in base ad un’esame sommario della vicenda e senza entrare nel merito) hanno di fatto a pezzi il numero chiuso ammettendo sinora 2mila candidati bocciati (5mila sono i ricorrenti) che, anche con un punteggio pari allo zero, si erano affidati alla carta bollata. Il motivo? Violazione dell’anonimato.
 

L’inutile codice alfanumerico

I documenti depositati nel corso delle infuocate udienze tenute davanti ai giudici capitolini svelano che la clamorosa decisione giudiziaria non è stato frutto di una sfortunata congiunzione astrale. Il dirigente generale del ministero dell’Università Daniele Livon il 2 aprile aveva segnalato che «a seguito dell’emanazione della nota sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in tema di segretezza e anonimato dei pubblici concorsi, si sono rese necessarie delle modifiche alla consueta procedura di identificazione e raccolta delle schede anagrafiche sulle quali si raccomanda di prestare particolare attenzione». Tuttavia, l’alto funzionario scelto nel 2010 da Maria Stella Gelmini nel modificare la procedura di identificazione non ha eliminato il codice alfanumerico sul foglio risposta. Eppure, che questo codice, non essenziale per l’organizzazione delle prove tanto da non essere usato in nessuno dei pubblici concorsi, potesse attentare all’anonimato lo diceva la stessa giurisprudenza citata da Livon. L’Adunanza plenaria, infatti, il 20 novembre del 2013 dichiarando invalidi i test svolti all’Università di Messina dal 2001 al 2010, aveva stabilito che per dichiarare invalido un pubblico concorso non fosse più necessario (come in precedenza) dimostrare che la violazione dell’anonimato abbia alterato l’esito delle prove ma che questa possibilità in astratto ci sia. E, qualche settimana prima, lo stesso organo di giustizia amministrativa pronunciandosi sulle prove del 2011 (in un giudizio in cui il Miur era parte), aveva affermato che «dalla documentazione è possibile ricavare con certezza che ciascuna prova reca impresso non solo il codice a barre, ma anche il codice identificativo del singolo candidato. Sicchè si può affermare che dalle singole prove, senza particolari difficoltà era possibile risalire al nome del candidato che l’aveva elaborate».

Le buste trasparenti

Non che bisognasse aspettare i giudici. Nel 2007, 7 anni prima, l’Alto commissariato per la prevenzione e il contrasto della corruzione, rispondendo a specifica richiesta del ministro, aveva consigliato «di espungere dal codice a barre utilizzato per l’abbinamento ai nominativi dei candidati il numero riportato in calce per evitare che il candidato ne prenda nota e lo comunichi ad operatori fraudolenti che attraverso quel numero possano risalire all’elaborato». E allora come è possibile che nessuno al Ministero si sia accorto del rischio di far diventare per il secondo anno consecutivo il concorso più importante d’Italia una burla? La domanda è stata girata attraverso l’ufficio stampa del Miur a Daniele Livon: il dirigente generale però ha fatto sapere che «non può rispondere». Che l’allarme «violazione anonimato» fosse scattato lo testimonia invece la dichiarazione (depositata al Tar) del direttore dei servizi didattici dell’ateneo di Messina, Carmelo Trommino: «Donatella Marsiglia (dirigente del Miur) mi ha telefonato alle 15 e 30 del 7 aprile, sottolineando la necessità di utilizzare per maggiore riservatezza una busta bianca in cui far inserire la scheda anagrafica. Visto il poco tempo a disposizione si sono utilizzate buste già in dotazione: non è stata fatta alcuna apposita gara». Laura Chiaranda, dirigente dell’ateneo di Bologna, ha confermato: «L’uso delle buste, suggerito per le vie brevi dal Ministero, si è reso necessario per fornire maggiori garanzie di anonimato». Peccato che quelle buste, come hanno dichiarato i responsabili di Blasetti e Pigna, le ditte produttrici, interrogati dai legali dell’Udu (Unione degli studenti) Michele Bonetti e Santi Delia, autori di centinaia di ricorsi, «non sono fornite di internografia (ciò che assicura la riservatezza del contenuto, ndr)». Inefficace si è rivelato l’espediente escogitato dalla Cattolica: mettendo il foglio risposta di traverso, infatti, il codice alfanumerico coperto dalla polvere dorata è ricomparso, come ha dovuto constatare, meravigliato, il presidente del Tar Lazio nel corso delle udienze.