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Tra Orwell e Young. Incubi per chi insegna

di Benedetto Vertecchi

15/06/2013
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Tuttoscuola

(Tuttoscuola, XXXVIII, 530, 2013)

Non è l’ultima ragione del disagio degli insegnanti il progressivo svuotamento delle funzioni collegate alla loro professione. Fin quando non si è preteso di assoggettare l’attività educativa a logiche prese in prestito dal mondo della produzione, gli insegnanti potevano sviluppare la loro attività perseguendo un disegno che si sarebbe prolungato nel tempo e che comprendeva sia scelte a carattere culturale e sociale, sia determinazioni più direttamente collegate al loro compito educativo. In altre parole, era chiaro a tutti che, per essere dei buoni insegnanti, occorreva possedere un solido corredo di conoscenze in un’area determinata, al quale doveva affiancarsi il repertorio delle competenze professionali, comprendente, oltre alla capacità di organizzare e produrre messaggi di apprendimento conformi alle esigenze degli studenti, quella di analizzare e interpretare la domanda sociale di istruzione e le sue conseguenze sugli atteggiamenti e i comportamenti degli allievi.

Il fatto è che il profilo tradizionale dell’insegnante, considerato insieme un intellettuale e un professionista dell’istruzione, si era venuto definendo in un quadro caratterizzato da uno squilibrio fra la domanda e l’offerta di educazione scolastica che cresceva al passaggio dall’istruzione primaria a quella secondaria inferiore e dall’istruzione secondaria inferiore a quella superiore. Si comprende che le trasformazioni introdotte nel sistema scolastico con la riforma della Scuola Media (1962) e quelle che in seguito sono derivate proprio in conseguenza di tale riforma abbiano progressivamente posto in crisi quel profilo. Con gli anni, il numero degli insegnanti è enormemente aumentato, attenuando parallelamente i tratti che in precedenza ne qualificavano il profilo. Il sistema scolastico è cresciuto supponendo che bastasse rivedere l’assetto normativo per adeguare l’educazione al mutare della domanda sociale. Non si è capito che la riforma del 1962 aveva raggiunto (almeno dal punto di vista quantitativo) i suoi intenti perché non si era limitata a prendere atto di cambiamenti più o meno diffusi negli atteggiamenti sociali verso l’istruzione, ma aveva cercato di andare oltre, ipotizzando equilibri socio-culturali ancora lontani dalla sensibilità collettiva. In altre parole, quella del 1962 era stata una riforma progettuale. In seguito, si sono avuti soprattutto interventi in direzione dell’aggiustamento dell’offerta educativa alla domanda.

Il fatto è che l’aggiustamento dell’offerta costituisce una soluzione solo per esigenze che non comportino revisioni di qualche consistenza dell’assetto del sistema educativo. Quel che è mancato, dopo la riforma della Scuola Media, è stato l’impegno per ridefinire il ruolo della scuola nella società contemporanea. Si è lasciato che la popolazione scolastica crescesse in modo lineare, ma senza chiedersi fino a che punto una simile tendenza potesse essere considerata positiva. Il rinnovamento della cultura della scuola in troppi casi è avvenuto per effetto di suggestioni marginali, senza che se sia derivato un incremento reale per la conoscenza: non è un caso che le scuole siano state inondate di educazioni (alla salute, al risparmio energetico, all’ambiente eccetera), tramite messaggi nei quali le componenti ideologiche (ovvero l’esortazione ad assumere comportamenti conformi a determinati valori) sono state del tutto prevalenti su quelle capaci di sollecitare la comprensione. I modelli organizzativi del lavoro scolastico sono stati cambiati più nella fenomenologia minuta che nella struttura, con la conseguenza di sollecitare gli insegnanti ad accogliere pratiche che si sono aggiunte in modo posticcio al loro corredo professionale. Ma proprio tali pratiche hanno finito col riversarsi sulle rappresentazioni sociali del lavoro educativo, togliendo rilevanza alla componente culturale del lavoro degli insegnanti (chi qualifica oggi un insegnante come un intellettuale?), e accreditando nello stesso tempo la nozione che quella educativa sia una professione fondamentalmente subalterna.

La conseguenza è che oggi gli insegnanti hanno perso le due attribuzioni centrali, quella culturale e quella professionale, sulle quali, per tradizione, si fondava il loro credito sociale. Col passaggio da un sistema scolastico a base sociale ristretta a uno a base ampia, sarebbe stato necessario un impegno politico che si sviluppasse nei diversi campi della vita sociale più immediatamente coinvolti nei processi di trasformazione del sistema educativo. È accaduto il contrario. Gli interventi politici sulla scuola sono consistiti, salvo poche eccezioni, in tentativi di razionalizzazione intesi a ridurne i costi. La cultura dell’educazione è stata mortificata dalla sua sostituzione con i cascami interpretativi e procedurali di una cultura organizzativa la cui supposta validità non è mai stata dimostrata: peggio, non si è mai neanche cercato di dimostrarla formulando inferenze che costituissero il punto d’arrivo di percorsi conoscitivi e interpretativi intrapresi nel rispetto della buona scienza galileiana. Le università, del tutto insensibili alla loro responsabilità storica e sociale nei confronti della promozione e dello sviluppo della conoscenza, si sono prestate a completare l’azione distruttiva impostata sul piano politico. L’offerta di studi per gli aspiranti all’insegnamento è crollata a livelli petroliferi. Ciò non ha impedito che si continuassero a definire soluzioni accademiche per le esigenze che di continuo si presentano. È onesto supporre che possano fornire competenza educativa a chi dovrà operare ad altri livelli del sistema educativo università che ormai si distinguono solo per le infime posizioni che occupano nelle graduatorie comparative? Si può, in altre parole, insegnare ad altri quel che non si è capaci di fare in proprio?

In questo scenario da dopoguerra s’inseriscono stuoli d’improbabili soloni. Alcuni di essi sono specializzati nel giustificare i vuoti di conoscenza sistematica che si lamentano nel profilo culturale degli allievi (ma solo degli allievi?), altri sanno di preciso che cosa si debba fare per rovesciare la situazione esistente perseguendo nuovi traguardi di qualità. I primi sembrano uniformare il loro pensiero ai dettami di un Ministero della Verità che ricalca quello descritto da Orwell. Tutto l’impegno è posto nel diffondere una neolingua (ovvero, pillole di una sedicente cultura educativa) composta di poche parole, con le quali si può formulare solo un pensiero povero d’interpretazioni. Che cos’altro sono se non espressioni di una neolingua le relazioni lineari tra cause ed effetti che limitato le prime alle caratteristiche personali degli allievi e le altre ai livelli di apprendimento osservati?

Certo, nessuno si sognerebbe di citare Orwell come una fonte per sostenere la pochezza di una cultura dell’educazione così poco giustificata dalla ricerca com’è quella cui fa riferimento il sistema scolastico italiano. Più fortunato di George Orwell è stato un altro scrittore del genere utopistico negativo, del quale si è presa per buona l’idea centrale e la si è riproposta senza tener conto che la parola usata per esprimerla ha un significato paradossale e grottesco. Mi riferisco a Michael Young, che nel 1958 pubblicò un libro intitolato The Rise of the Meritocracy. Nel libro si trova descritto un ordinamento sociale nel quale il destino degli individui è determinato dalle loro capacità mentali e dallo sforzo che sono disposti a produrre per affermarsi. Quella che ne deriva è una élite arrogante, il cui potere sarà rovesciato da una rivoluzione.

I nostri insegnanti dovrebbero muoversi in una dimensione culturale dominata dalla neolingua, e perseguire intenti meritocratici. In breve, sono sballottati fra un incubo e l’altro. Una politica per la crescita dell’educazione non può non porsi il problema di stabilire le condizioni per affermare un profilo d’insegnante capace di interpretare le nuove esigenze dell’educazione e di elaborare le soluzioni più opportune.