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Travolti dal multitasking? No, se sapremo scegliere

il punto è sostanziale: siamo noi i responsabili degli effetti della tecnologia sull’individuo e la società

13/10/2014
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la Repubblica
FABIO CHIUSI
DA TEORICO dei benefici della collaborazione online, Clay Shirky non si può certo definire un tecnofobo. Eppure, confessa in un lungo post su Medium, ha preferito per la prima volta vietare l’uso di laptop, smartphone e tablet ai suoi studenti al corso di Teoria e pratica dei social media alla New York University. Motivo? «Gli effetti pratici della mia decisione di consentire l’uso della tecnologia in classe sono peggiorati nel tempo». Troppe distrazioni causate, ipotizza, proprio dal multitasking, il dedicare la propria attenzione a più device o più fonti contemporaneamente. Un processo «cognitivamente estenuante», scrive, ricalcando la tesi che Nicholas Carr ha espresso nell’ormai celebre atto d’accusa su The Atlantic dal titolo “Google ci rende stupidi?”, e approfondito in The Shallows e nel recentissimo The Glass Cage. Il timore di Carr è concreto: nelle parole di un altro guru della materia, Howard Rheingold, è che la «mentalità del link» porti alla «morte delle modalità di pensiero incentivate dal libro », alterando i nostri circuiti cerebrali e adattandoli all’etica della superficialità e della frenesia che il teorico dei media associa alla nostra era iperconnessa.
Una forma di determinismo tecnologico, dice ancora Rheingold, che assume che all’introduzione di una tecnologia seguano effetti precisi e invariabili a seconda di contesti, società e persone. E che produrrebbe conseguenze nocive per la nostra capacità di concentrazione, la riflessione profonda, la memoria. Diversi studi, menzionati dallo stesso Shirky, confermano: il multitasking può condurre a decisioni peggiori, che risultano per esempio in voti più bassi per gli studenti di college che facciano i compiti mentre inviano sms e scorrono Facebook. Ma è proprio Rheingold, in Net Smart, a indicare che il determinismo non è l’unica ipotesi in campo: «Non sono d’accordo con l’inevitabilità di tale processo», scrive. «Una cultura può scegliere di istruirsi seriamente, come fecero l’Europa e il resto del mondo nell’epoca successiva a Gutenberg, in risposta all’abbondanza dirompente di comunicazioni e di modi di comunicare». Quell’abbondanza, insomma, è un problema solamente se ce ne facciamo travolgere, «e non è detto che ciò debba accadere».
E del resto, un’altra ricerca pubblicata a maggio 2013 da Aryn Karpinski e colleghi studiando l’impatto del multitasking su gruppi di studenti statunitensi ed europei ha concluso che «non è l’uso dei social media in sé a essere deleterio, ma usarli come disturbo, interruzione» — come fanno i primi, ma non i secondi. Non a caso, spiega Tom Cheshire su Wired, diversi studiosi ne stanno indagando gli effetti positivi su socievolezza, espressività e creatività dei bambini. La stessa tecnologia che può distrarli, in altre parole, ne può «se adeguatamente accompagnati» aguzzare l’ingegno.
Vero, le prove sono ancora «frammentarie », scrive Cheshire, ma il punto è sostanziale: siamo noi i responsabili degli effetti della tecnologia sull’individuo e la società. Retoriche come quella dei “nativi digitali”, che si vorrebbero giovani e quindi automaticamente predisposti a essere connessi (quando, dimostra Danah Boyd in It’s complicated , non lo sono), o quella opposta dei “dementi digitali”, per dirla con Manfred Spitzer, finiscono per dimenticarlo, deresponsabilizzandoci. Mentre la comunità scientifica cerca di comprendere a fondo il fenomeno, ragioniamo piuttosto su come coniugare tempo reale e umanità. Chi sostiene che troppa connessione ci mette in pericolo ne tragga quantomeno le dovute conseguenze, per esempio chiedendo nuove tutele per tenere salda la distinzione tra lavoratore e automa.