Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Una riforma in perfetta continuità con la scuola del centro-destra

Una riforma in perfetta continuità con la scuola del centro-destra

di Maurizio Tiriticco

20/08/2015
Decrease text size Increase text size
ScuolaOggi

“Una società distinta in classi deve prestare attenzione speciali soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno”.

John Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 111 – Democracy and Educationvide la luce a New York nel 1916 per i tipi della The Macmillan Company

Le considerazioni di De Mauro

In un recente articolo apparso sulla rivista “Internazionale” Tullio De Mauro denuncia i “tre silenzi del governo che fanno male alla scuola”. Ovviamente, il riferimento è alla legge recentemente approvata dalla Camera dei Deputati, con la quale si riorganizza l’intero impianto del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”[1].

I tre silenzi, in rapida sintesi, sono i seguenti: 1) il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola pubblica ha fatto dalla Liberazione e per tutta la seconda metà del secolo scorso; 2) i vincoli che la Costituzione ha posto alla scuola pubblica, che non è un pezzo qualunque dello Stato, ma un organo costituzionale a cui sono affidati precisi doveri, compiti e obiettivi; 3) la progressiva dealfabetizzazione della nostra popolazione adulta, denunciata da tutte le ricerche internazionali e non, di cui la scuola, e soprattutto quella media superiore, ha una precisa responsabilità.

Ovviamente, gli autori della Buona scuola e della legge che ne è seguita potrebbero obiettare che, anche se tali fenomeni non sono stati contemplati e opportunamente analizzati – in primo luogo nella Buona scuola, in quanto documento introduttivo all’atto legislativo – ciò dipende dal fatto che uno strumento normativo non può farsi carico di argomentazioni introduttive particolarmente mirate, e che il retroterra storico-culturale che è a monte del testo si evince dal suo impianto e dalla sua stessa lettura. E il punto è proprio questo: che emerge, invece, un retroterra che poco o nulla ha a che fare con la storia del nostro sistema scolastico e dello stesso nostro Paese. La legge della Buona scuola intende innovare a tal punto da rompere addirittura con una tradizione che non possiamo assolutamente disconoscere né addirittura stravolgere. In effetti, la legge prefigura una scuola – o, se si vuole, un sistema di istruzione – che è altra cosa rispetto a una consolidata tradizione. Innovare è necessario. Stravolgere è pericoloso.

Ovviamente è lungi da me il pensare che la nostra scuola non necessiti di un profondo riordino: e un riordino che, del resto, viene da lontano. Per essere più precisi, occorre partire da quanto è accaduto alla fine del secolo scorso. Voglio ricordare che la legge 30/2000, varata dall’allora governo di centro-sinistra con il ministro Berlinguer, e in seguito – com’è noto – abrogata dalla legge del governo di centro-destra 53/2003, meglio nota come “riforma Moratti”, si proponeva un complessivo riordino dei cicli scolastici. Quali le ragioni? Erano essenzialmente tre: 1) permettere ai nostri giovani di uscire dall’intero sistema di istruzione a 18 anni di età, come avviene già da anni in altri Paesi dell’Unione europea e non solo, ed evitare di trattenerli “sui banchi di scuola” anche se maggiorenni; 2) adoperarsi perché i diplomi loro rilasciati non fossero più generici documenti attestanti livelli di maturità, sempre difficili da accertare, ma veri e propri certificati che dichiarassero le concrete competenze conseguite; il che avrebbe consentito di rendere leggibili i diplomi anche in contesti internazionali e soprattutto nell’ambito dell’Unione europea; 3) innalzare l’obbligo di istruzione ottonnale di almeno due anni per rispondere a una fondamentale esigenza: garantire a tutti i cittadini il conseguimento di quelle competenze di cittadinanza e culturali di base utili e necessarie per le ulteriori scelte di vita e di lavoro.

La necessità di un riordino dei cicli

A tal fine si poneva come necessario un complessivo riordino dei cicli: occorreva superare la frammentazione verticale e orizzontale dei gradi e degli ordini scolastici, ereditata da un lontano passato, e dar luogo a un vero e proprio sistema articolato al suo interno. Per la prima volta non si parlava più di scuole in quanto unità scolastiche, di “edifici”, ma in quanto, invece, di “istituzioni scolastiche autonome” (si vedano sia la legge 59/97 che il dpr attuativo 275/99), operanti all’interno di un progetto statuale di ampio respiro (si veda tutta la storia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e della sua costituzionalizzazione – se si può dir così – nel novellato articolo Cost. 117 [2]). Con la legge 30/2000 per la prima volta nella nostra storia si giungeva a una visione complessiva e unitaria dell’intero Sistema educativo di istruzione e formazione.

Ma per quale ragione una legge che affrontasse in toto e ad ampio spettro l’organizzazione dell’intera scuola nazionale? E’ opportuno riflettere sul fatto che la storia della nostra scuola – fin dalla prima legge Casati – è costituita di continui e progressivi aggiustamenti, indotti dalle esigenze culturali, strumentali, socioeconomiche e lavorative che via via si andavano sviluppando nel Paese. In effetti, mancava sempre un’idea di scuola in quanto tale, con le sue finalità e la sua autonomia, in grado di rispondere ad esigenze culturali di alto livello. Le iniziative di riforma costituivano risposte sempre parziali, legate alle emergenze che via via si sviluppavano in un Paese che da fondamentalmente agricolo, frazionato da sempre nei suoi innumeri staterelli, si avviava, invece, a sviluppare settori industriali e manifatturieri nonché un settore terziario che potesse costituire l’ossatura amministrativa e finanziaria di un Paese unitario di recente istituzione: com’è noto, la proclamazione del Regno d’Italia è del 1861. Possiamo anche ricordare che solo la riforma Gentile, avviata dal 1923, si propose per la prima volta finalità e obiettivi educativi e culturali che potremmo definire totalizzanti, ma, com’è noto, solo al fine di costruire una scuola a senso unico, in grado di “produrre” uomini “ad una dimensione”, fascisti certi e fedeli, in grado di credere, obbedire e combattere.

Fu solo nell’immediato dopoguerra, dopo la parentesi della scuola fascista, che ci si rese conto che occorreva ripensare totalmente alla nostra scuola. E i Padri e le Madri Costituenti ne hanno tracciato finalità e contenuti di base, una scuola per tutti e per ciascuno e che garantisse ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. Cost. 34). Per l’intera seconda metà del secolo scorso ci siamo sempre adoperati, pur con governi di diversa ispirazione politica, a costruire, via via, pezzi di scuola – se mi è consentita questa espressione – che, pur cercando di rispondere alle esigenze sempre crescenti di un Paese che anno dopo anno sempre più si industrializzava e si terziarizzava, però tenesse sempre fermi i principi costituzionali che ne configurano finalità e contenuti essenziali. I “pezzi forti” di questo lungo e faticoso ma premiante percorso sono noti: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, nel ’62; i nuovi programmi della scuola media nel ’79; quelli della scuola elementare nell’85 e nel ’90; gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia nel ’91. Per non dire dell’impennata dell’istruzione tecnica e di quella professionale che hanno dato un notevole contributo a quel boom che nel secolo scorso ha fatto del nostro Paese uno dei primi tra quelli ad alto sviluppo. Il tutto, infine, coronato da una scelta strategica e organizzativa di primaria importanza: l’autonomia delle istituzioni scolastiche da realizzarsi nel più vasto processo autonomistico che nell’ultimo decennio del secolo scorso ha interessato l’intera organizzazione statuale del nostro Paese. Si è trattato di un processo descritto e sancito dalla stessa Costituzione repubblicana del ’47, ma di difficile realizzazione negli anni dell’immediato dopoguerra: in effetti, non era facile trasformare in breve tempo un forte regno centralizzato, costituito di sudditi “regnicoli” obbedienti, in una forte repubblica decentrata affidata all’iniziativa di cittadini responsabili.

I provvedimenti regressivi del centro-destra

Tutte le innovazioni che hanno interessato la nostra scuola negli ultimi decenni del secolo scorso sono state realizzate sempre nel solco dei precetti costituzionali. Il riordino complessivo avviato con le leggi del Governo di centro-sinistra alla fine degli anni ‘90, in una certa misura, tendeva a chiudere l’intera esperienza del mezzo secolo trascorso e a costruire una complessa ma articolata organizzazione scolastica.

Ma poi? Che cosa è accaduto con l’avvento del governo di centrodestra? Con la riforma Moratti si ebbe il primo avvio della costruzione di una scuola “diversa”. La definizione di “Sistema educativo di istruzione e formazione” venne mantenuta; la stessa cosa avvenne per l’autonomia. Ma ciò che cambiava profondamente erano le finalità del “nuovo” sistema, in effetti sottese e mai esplicitamente dichiarate. Tutti ricordiamo come una certa lettura della normativa sull’autonomia poteva direttamente portare alla scuola/azienda, allo studente/cliente, al preside/manager: dizioni e concetti assolutamente estranei alla visione di una scuola autenticamente ispirata ai principi costituzionali. Ebbene proprio questa visione era – ed è tuttora – sottesa all’idea che della scuola hanno le posizioni del centro-destra.

Tutti noi ricordiamo i “Piani di studio personalizzati” della legge Moratti, di fatto l’introduzione del concetto di personalizzazione con cui si moltiplicarono gli obiettivi terminali di un percorso formativo in funzione del fatto che occorreva “dare a ciascuno il suo”, ma in senso regressivo. La Moratti più volte ha ripetuto che non è l’alunno a servizio della scuola, come sarebbe sempre avvenuto nella scuola “governata dalla sinistra”, ma viceversa: la scuola al servizio dell’alunno: in altri termini, l’alunno chiede e la scuola offre. Il concetto di personalizzazione in effetti scardinava la funzione costituzionale della nostra scuola che si era da sempre ispirata, invece, al concetto di individualizzazione.

La differenza non è affatto di poco conto, perché vede e dà vita a due modelli antitetici di scuola. Nella “scuola della Costituzione”, quella che si ispira ai concetti così mirabilmente espressi negli articoli 2, 3, 9, 33, 34 e 117, è fondante il principio della individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento, per cui si tengono ferme le finalità e gli obiettivi terminali, modulando invece le attività didattiche con tutte le opportune attività di recupero precoce, di sostegno, di rinforzo e quant’altro. E la teoria del curricolo e della programmazione educativa e didattica costituivano e costituiscono il fondamento di tale scelta. Con la personalizzazione, invece, si curvano obiettivi e finalità alle esigenze dell’alunno. Si rompe così l’unitarietà (non parlo di unità che è altra cosa) dei processi di insegnamento/apprendimento in funzione delle esigenze “personali” dell’alunno. E non è un caso che con le indicazioni della legge 53 si passò dalle unità didattiche, centrate sull’oggetto da apprendere, alle unità di apprendimento, curvate, invece, sul soggetto che apprende: il che comporta anche una sorta di “devoluzione” degli obiettivi, a seconda delle particolari esigenze dell’alunno. In altri termini, con tale scelta si va verso quella scuola centrata sul cliente che rinvia ai concetti della scuola azienda e del “preside manager”. Il disegno del governo di centro-destra era chiaro.

E ancora più chiaro fu il disegno del successivo governo di centro-destra, dopo la parentesi del governo Prodi. Perché con i ministri Gelmini e Tremonti i tagli alla scuola si fanno più pesanti che mai? Perché è inutile investire nella scuola, in quanto “con la cultura non si mangia”. Questi sono i concetti di fondo, anche se non esplicitamente dichiarati: l’alunno che va avanti, procede per suo merito: chi resta indietro, si arrangi. Perché si ritorna al voto nella scuola dell’obbligo? Perché il voto separa nettamente il “bene” dal “male”: il giudizio, invece, è un insieme di parole che “non dicono nulla”! E non serve a una scuola che intende tornare alla selezione di sempre, o meglio a quella scuola che include i cosiddetti migliori ed esclude i cosiddetti peggiori.

Una Buona scuola che non affronta le carenze emergenti

L’excursus che ho condotto sin qui costituisce una chiave di lettura della Buona scuola e della legge che ne è seguita. La Buona scuola non è nata per caso. In tempi non lontani, se si trattava di pensare in grande, rivedere programmi di studio, definire contenuti disciplinari, addirittura proporre testi di riforma, Il Ministero istituiva commissioni di studio e di lavoro a cui partecipavano esperti di ogni estrazione politica e culturale. E nessun ministro in carica, anche il più fervente DC, avrebbe mai pensato di avanzare una proposta così impegnativa, come una legge di riordino è, scavalcando le istanze che istituzionalmente si occupano di scuola e di insegnamento. Renzi nel discorso di investitura aveva tenuto un discorso ricco di accenni e di indicazioni concrete sul problema della scuola: un discorso che mai altri presidenti del consiglio avevano tenuto! Ricco di spunti e indicatore di una Buona volontà di mettere le mani a un riordino. E di un riordino abbiamo assolutamente bisogno! Ma di quale riordino? Quello dei cicli, in prima battuta, cosa che aveva già tentato Berlinguer, spinto da una oggettiva necessità. E quello della didattica che implica l’avvio di un rapporto totalmente nuovo tra disciplina e conoscenza, tra docente e alunno al fine di superare la triade di sempre: lezione cattedratica, compiti a casa, interrogazione. Le iniziative innovative in tal senso non mancano [3] e non necessitano quindi la Buona scuola e la legge che ne è seguita perché un rinnovamento radicale e reale si possa produrre nel nostro Sistema di istruzione.

E a questo punto, ritorno a quanto ci dice Tullio De Mauro. Ci troviamo a dover applicare una legge piovuta non si sa né da dove né da che cosa né da chi, e che non si innesta sul solco di quelle innovazioni che nella seconda metà del secolo scorso hanno consentito di costruire una scuola conforme al dettato costituzionale. Ci troviamo di fronte a una legge che difficilmente potrà portare a qualcosa di Buono! Si tratta di una legge che non mette in discussione cicli ormai asfittici e chiusi in se stessi e che non accenna affatto alla necessità di un loro riordino.

Abbiamo un percorso obbligatorio di dieci anni che si sviluppa lungo tre segmenti, primaria, media e primo biennio secondario. Ma si tratta di un percorso fantasma, spezzettato in tre gradi, ciascuno a suo modo referenziale e centrato solo su se stesso. Purtroppo esiste ancora la scuola “elementare” delle “maestre”, la scuola media delle “professoresse” – nonostante gli istituti comprensivi verticali – e un primo biennio dei “professori”. I primi due gradi si concludono con una supposta certificazione delle competenze che, riguardando bambini di 11 e adolescenti di 14 anni, costituiscono solo faticose e inutili operazioni degli insegnanti che nessuno tiene nel debito conto, perché in effetti il loro valore educativo e legale è nullo. E poi, quando al termine del biennio decennale si dovrebbero certificare competenze vere, di sedicenni, che poi coincidono anche con quelle di cui al secondo livello del Quadro europeo delle qualifiche [4], non accade assolutamente nulla, se non una semplice trascrizione dal voto a un sintetico giudizio verbale… che nessuno legge e che a nessuno serve! Comunque, la forma, il vuoto adempimento normativo – di cui ai dm 139/2007 e 9/2010 – sono soddisfatti!

Ma non finisce qui. Quest’anno 2015 è andato a regime il riordino degli istituti secondari superiori avviato dal ministro Gelmini nel 2010. Ebbene sia nelle Indicazioni nazionali dei licei che nelle Linee guida degli istituti tecnici e professionali soni individuate e descritte – nelle Indicazioni, comunque, in modo più sfumato – le competenze finali da certificare. La legge di riforma dell’esame di maturità, fin dal suo varo – siamo nel 1997 – prevede che al termine dei percorsi vengano certificate le competenze acquisite dai candidati. E’ successo qualcosa? Assolutamente no! Semplicemente il Miur non è in grado, in 18 anni, di adempiere alle leggi e ai provvedimenti che in molti casi esso stesso si è dato. E il che non consente ai nostri studenti di disporre di un diploma che attesti con chiarezza in Italia e in qualsiasi Paese dell’Unione europea che cosa veramente “sa fare”. Eppure il modello di certificazione che certifica il nulla è scritto in cinque lingue! Il moloch della forma è salvo!

La Buona scuola non è nata per caso

Si tratta di semplici accenni a problemi macroscopici che da anni ci portiamo dietro e che non riusciamo a risolvere. Eravamo in molti a pensare che, con i provvedimenti annunciati da Renzi, si mettesse mano a queste problematiche annose. Invece, no! Dal cappello dell’illusionista è uscita la Buona la scuola! Chi l’ha scritta? Mistero! Nessuno specialista del settore! E da un secondo cappello è uscita la legge. Chi l’ha scritta? Mistero! Chi l’ha difesa? Il ministro Giannini, solo con qualche cenno di assenso ogni tanto – mai un discorso organico e articolato sulla legge – e due o tre onorevoli che poco o nulla sanno realmente e concretamente di scuola. Viene il sospetto che a scrivere questo testo siano stati specialisti di organizzazioni “altre” rispetto a quelle che caratterizzano la nostra scuola e i nostri istituti universitari.

In effetti, nulla nasce a caso. C’era un disegno da riprendere, da portare avanti e da concludere, quello dell’autonomia, ma in chiave centro-destra, cioè dell’autonomia che consente l’aprirsi a ventaglio delle offerte più disparate e, soprattutto, più differenziate. Il motto della “Scuola buona”, quella della Costituzione indica da sempre: una scuola per tutti e per ciascuno e, soprattutto una scuola che permetta a ciascuno di raggiungere quel “successo formativo” che concettualmente è scritto nella Costituzione e formalmente nell’articolo 1 del dpr 275/99. Il motto della “Buona scuola” è un altro… detto in soldoni: armatevi e partite! Datevi da fare e vinca il migliore! Sono previsti un sacco di soldi, questo è vero, anche se pensiamo alle ristrettezze a cui le dissennate politiche del risparmio sempre e comunque ha condotto le scuole a rendere obbligatori i contributi volontari delle famiglie.

Così, la grande kermesse ha inizio! La gara è aperta! I presidi – pardon, i dirigenti scolastici – cosiddetti migliori, i più intraprendenti, i più scaltri faranno incetta nei mercatini provinciali degli insegnanti. Saranno dei veri manager, non paventati, come si temeva, ma anzi sollecitati da qualche dollaro in più, i quali troveranno appoggi, sostegni e denaro per costruire progetti triennali che più belli non si può! Il mercato è l’anima nuova che illumina e guida tutte le attività, quindi anche quelle delle scuole. E gli insegnanti migliori non saranno più i più alti in graduatoria per titoli di studio ed esperienza professionale, ma quelli che “servono” a quel progetto triennale. E ogni scuola sarà diversa dall’altra, come vogliono le normali leggi del mercato. Avremo senz’altro Scuole migliori, ma… non avremo una Scuola migliore. Ne conseguirà oggettivamente – per la mera legge di mercato – che avremo scuole migliori e scuole peggiori. Di conseguenza, avremo dirigenti, insegnanti e scuole migliori, da premiare e gratificare! E dirigenti, insegnanti e scuole peggiori da lasciare indietro.

Un attacco alla scuola della Costituzione che occorre respingere

Ha inizio a mio vedere un attacco alla scuola pubblica, alla scuola della Costituzione. Si fanno largo istanze diverse, avanzate in parte da Confindustria, in parte da Treellle, in parte dalla Fondazione Agnelli: istituti di ricerca di tutto rispetto, ma orientati più alle concrete esigenze del mercato che non a quelle del singolo cittadino. A monte c’è una considerazione di questo tipo: l’istruzione della Costituzione, garantita a tutti, è estremamente impegnativa. In un mondo sempre più globalizzato, in cui in cui le leggi esplicite del mercato – e del danaro, purtroppo – si fanno sempre più forti rispetto alle leggi implicite di una convivenza democratica di cittadini che debbono godere di pari opportunità e di pari diritti, l’esplicito materiale si impone sull’implicito civile. Domandiamoci anche il perché di queste insistenza, da anni sempre più ossessiva, sulla valutazione delle scuole, dei dirigenti, degli insegnanti. Perché questa esigenza nasce oggi e non è nata quando abbiamo fatto le grandi riforme dal dopoguerra fino agli anni Novanta? Non dovevamo distribuire premi e punizioni, ma sollecitare tutti a fare al meglio il proprio dovere. Non si erogavano premi, ma anno dopo anno si innalzava la cultura degli italiani, e anche il loro benessere: il boom degli anni Cinquanta. Per non dire di quelle “150 ore” con cui abbiamo permesso a un alto numero di adulti di acquisire quelle competenze di leggere, scrivere e far di conto che una società ingiusta aveva loro negato.

Ovviamente, i tempi sono cambiati e le competenze civili e culturali di base si sono notevolmente innalzate. Però – di qui la denuncia di Tullio De Mauro – i nostri adulti non brillano affatto in quanto a competenze di base di literacy. E non solo: i numeri dei nostri diplomati e dei nostri laureati sono tra i più bassi di Europa. Il che significa che negli ultimi anni siamo venuti man mano perdendo i vantaggi che tanto faticosamente avevamo conquistato con l’avvio della Scuola della Costituzione.

Tutto ciò comporta l’assoluta necessità di rimetter mano alla scuola, se si vuole veramente garantire a ciascuno di raggiungere quel “successo formativo”, che abbiamo già ricordato, di cui all’articolo primo del dpr che regola l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Ma la legge 107 non si propone finalità di questo tipo, di raggiungere, cioè tutti e ciascuno e garantire un vero salto qualitativo per quanto riguarda la cultura e le competenze di base di tutti i cittadini, non uno di meno. Perseguire e premiare l’eccellenza significa prevedere e tollerare la mediocrità. Di fatto, per altro, questa tolleranza è in atto da almeno un quindicennio, da quando, con le dissennate riforme avviate e consolidate dal centro-destra e con una visione distorta dell’autonomia di ciascuna istituzione scolastica, il livello di efficienza e di efficacia di molte scuole è venuto sempre più peggiorando.

La legge 107 legittima questa situazione, invece di sanarla, anzi la esaspera. Per tutte queste ragioni gli operatori scolastici tutti, dal prossimo settembre dovranno impegnarsi perché gli effetti dannosi che la legge di fatto provocherà siano contenuti al minimo. E in parallelo, dobbiamo riprendere tutti le redini perché la Scuola della Repubblica sia anvora e sempre quello strumento di crescita e di sviluppo per tutti e per ciascuno come dettato dalla Costituzione.