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Una scuola che funzioni. Ovunque

Marina Boscaino

06/09/2006
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Il ministro Giuseppe Fioroni, nella circolare inviata ai docenti in occasione dell'inizio dell'anno scolastico e nelle note di indirizzo ad essa allegate, ha auspicato il miglioramento dell'apprendimento e l'estensione dell'istruzione; il recupero di motivazione e partecipazione degli studenti; un contrasto efficace alla dispersione; una scuola inclusiva nei confronti di tutte le diversità; la fiducia pubblica verso la funzione e l'operato degli insegnanti e della scuola; il legame sempre più stretto con le comunità e le sue articolazioni sociali e istituzionali. Se questi obiettivi riuscissero ad essere perseguiti efficacemente e attraverso una reale apertura verso la scuola competente e formativa che il nostro paese ha diritto di richiedere si verrebbe incontro alla richiesta di molti settori della società che invitano ad un ripensamento e a una significativa riforma della scuola. A riprova del fatto che, dopo anni di più o meno esplicito disinteresse nei confronti di un settore nevralgico, ai temi della formazione, dell'istruzione, della conoscenza, viene restituita la centralità che meritano. E viene riconosciuta loro l'indubitabile funzione che hanno nel sostegno alla crescita morale, civile, ma anche economica di un paese.
Un significativo esempio della ritrovata centralità di questi temi è l'importanza che ad essi venne attribuita nelle sue Considerazioni finali dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. A proposito di scuola e università Draghi ha sostenuto che anche se «negli ultimi 10 anni l'Italia ha ridotto il divario rispetto ai paesi più avanzati, il ritardo accumulato peserà ancora a lungo sul livello medio del capitale di istruzione degli italiani». Da una considerazione delle posizioni del governatore possono emergere anche importanti indicazioni per la realizzazione degli obiettivi che il ministro ha indicato.
I dati a cui Draghi faceva riferimento sono quelli di uno studio dell'Ocse, secondo il quale nel 2003 le quote di diplomati e laureati italiani nella fascia tra i 25 e i 46 anni erano rispettivamente del 34% e del 10%, a fronte di una media europea superiore in entrambi i casi di più di 10 punti. A questo proposito il riferimento principale non può che essere il rapporto P.I.S.A. L'Ocse, dal 2000, si è occupata di portare avanti una interessante indagine, il «Programme for internazional Student Assesment»: una serie di test - che nel 2003 si sono concentrati sulla valutazione delle competenze matematiche - somministrati ad oltre 11.000 quindicenni. Quell'anno i risultati relativi a quella disciplina confermarono quanto emerso dall'indagine del 2000, e cioè che il livello delle competenze degli studenti italiani delle scuole secondarie risulta estremamente più basso rispetto alla media dei paesi Ocse. In particolare, nell'ambito matematico, il nostro paese si posizionò al 25° posto in termini di punteggio medio, allo stesso livello del Portogallo e appena prima della Grecia: solo il 20% degli studenti italiani ha capacità matematiche tali da consentire la soluzione di problemi complessi, mentre la media europea si attesta sul 34%. Questi risultati, pubblicati dall'Ocse in «Learning for Tomorrow's World - First Results from PISA 2003», scatenarono un coro - ora allarmato, ora scandalizzato - di critiche e di analisi approssimative del sistema scolastico italiano. E, seppure la formulazione dei test risponde a criteri che hanno talvolta fatto sorgere discussioni e perplessità, certamente i risultati rivelano aspetti critici nella realtà scolastica italiana. Su questi bisogna interrogarsi e rispondere in maniera meno velleitaria - o superficiale, a seconda dei punti di vista - di come abbia cercato di fare la Moratti; che con la sua proposta di «licealizzazione» obbligata della scuola superiore - fortunatamente bloccata dal neo ministro Fioroni - illudendo le famiglie di mandare pur sempre i propri figli in un liceo, le distraeva da un fisiologico abbassamento del livello di preparazione e - contemporaneamente - riduceva la capacità degli studenti (garantita dall'istruzione secondaria di tipo tecnico e professionale) di entrare nel mercato del lavoro, favorendo esclusivamente le famiglie economicamente agiate e perpetuando di fatto, attraverso la scuola, differenze basate sull'estrazione sociale. Il governatore della Banca d'Italia aveva sottolineato che a 15 anni «gli studenti italiani hanno accumulato un ritardo nell'apprendimento della matematica equivalente a un anno di scuola». La formula che era stata individuata da Draghi per far fronte alla gravità di questo ritardo è quella - non condivisibile da parte di chi scrive - di «rafforzare la competizione tra scuole e università». Tanto meno condivisibile quanto più si faccia riferimento espressamente proprio ai dati del rapporto PISA. D'altro canto Draghi stesso ha sostenuto che «a questo difetto di efficacia» negli studi «se ne aggiunge uno di equità: la variabilità nei livelli di apprendimento dei quindicenni colloca il nostro paese al 23° posto dell'Ocse. Il successo scolastico nella scuola superiore e nell'università è fortemente correlato alle condizioni della famiglia di provenienza».
È vero, ma c'è di più. Alcune criticità del sistema scolastico italiano prescindono infatti dallo studio e dall'insegnamento della matematica o di altre discipline in senso stretto, ma sono generali e strutturali. In quanto tali potrebbero costituire un serio suggerimento per chi voglia pensare ad una reale riforma della scuola italiana. Un'analisi dei dati PISA 2003 dimostra che a Trento e Bolzano, per esempio, i risultati degli studenti in matematica si attestano sui livelli di quelli della Finlandia, al vertice - insieme alla Corea - della classifica PISA. Gli studenti dell'Italia settentrionale superano la media Ocse. Quelli delle regioni meridionali si attestano invece su risultati simili a quelli degli studenti di Turchia e Uruguay, tra gli ultimi in classifica. Una posizione intermedia, e comunque al di sotto della media, occupano gli studenti dell'Italia centrale. Scuole professionali e istituti tecnici rappresentano, dal punto di vista delle competenze matematiche, l'anello più debole del sistema dell'istruzione italiano. La collocazione geografica in primo luogo, nonché il tipo di scuola frequentata, dunque, sono i due principali elementi responsabili della estrema diversificazione del rendimento scolastico tra alunni del Nord e quelli del Sud. E, in definitiva, del basso valore medio. Queste conclusioni devono spingere ad una seria riflessione sul problema dell'equità del sistema dell'istruzione. La variabilità dei risultati registrati nelle diverse scuole è spiegata, più che nel resto d'Europa, dal contesto sociale nel quale la scuola si colloca, più che dal back-ground del singolo studente. Questo è indice di una scuola che, meno che altrove, uniforma, rimuove gli ostacoli, individua situazioni e condizioni comuni; alla scuola dovrebbe essere affidato la funzione democratica di superare le fragilità delle condizioni personali uniformando, omogeneizzando; le scuole italiane riflettono invece la segmentazione sociale - più evidente al Sud che al Nord - offrendo servizi in alcuni casi inferiori agli standard, ma anche disomogenei. La distribuzione del sapere in Italia è dunque più iniqua che altrove. Inoltre, nel nostro paese questa iniquità non si accompagna nemmeno ad un alto risultato medio, come accade invece in altri paesi - Germania e Giappone, ad esempio - dove la variabilità tra le competenze degli studenti è alta (comunque minore di quella italiana) ma questo può essere visto come il prezzo che quei sistemi formativi pagano per risultati complessivamente migliori.
Le proposte politiche relative alla scuola italiana hanno finora ignorato questi numeri. Al Sud mancano fondi? Le strutture sono peggiori? Le famiglie di provenienza degli alunni del Nord sono migliori? Le domande sono molte, le risposte altrettante. Ma certamente la riforma Moratti non ha operato in nessuna delle direzioni tracciate da questi e da altri indicatori. La realizzazione degli obiettivi che il ministro si pone sembra richiedere almeno per una prima lunga fase incentivi per le zone a rischio, investimenti speciali per territori particolari, inserimento di figure professionali aggiuntive e di sostegno; provvedimenti che riguardano direttamente la scuola, e che possono avere conseguenze positive non solo sulle competenze di base degli studenti o, in generale, sulla qualità del loro apprendimento, ma anche in una logica di integrazione tra scuola e territorio. L'urgenza immediata - in attesa dei risultati dell'indagine PISA 2006 - non appare tanto quella di riformare la scuola nella direzione di fantasiose presunte modernizzazioni; ma di tendere a portare al livello delle migliori esperienze tutte le aree del nostro paese. E salvare il Mezzogiorno e tutte le aree di degrado dalla fatalità del proprio destino: per sottrarsi al quale chi ha le opportunità non può che allontanarsi - una volta usciti da quelle scuole - partire, confinando coloro che non possono in una condizione di minorità obbligata.