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Unità: Antiamericano chi?

di Furio Colombo

21/01/2007
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l'Unità

Antiamericano
chi?

Furio Colombo
Senti lo spiffero di un vento freddo di solitudine quando vedi Prodi che tiene stretta la pergamena della sua laurea ad honorem, mentre un gruppo di persone, appositamente organizzato, lo fischia e fa il saluto fascista.
Ma senti lo stesso freddo di solitudine quando entri in Senato, dopo l’interruzione di Natale, e apprendi che tutti i leader del tuo gruppo - l’Unione - hanno firmato e presentato una proposta di «Legge contro i fannulloni dell’ Amministrazione pubblica». Si applicherà tramite l’istituzione di una apposita Autorità (composta da un bel po’ di funzionari pubblici, immagino) strana invenzione suggerita, forse per scherzo, da un estroso articolo di giornale.
Che splendida materia per un racconto alla Gogol. Immaginate una seduta di questa nuova «Autorità dei fannulloni». Sarà, contro gli impiegati statali di scarsa efficienza, altrettanto tempestiva e implacabile come l’Antitrust verso i leader politici portatori di conflitti di interessi, o la Consob contro le avventurose e misteriose scalate di imprese?
Certo, farà il suo affetto a «Porta a Porta». Ma temo che la distanza dalle ansie degli italiani che ci hanno eletto e ci guardano senza capire resterà intatta. Anche perché coloro che ci hanno eletto avranno pensato che ci avevano mandato qui a lavorare duro non solo per mantenere ogni mattina e ogni sera il numero legale in aula ma, prima di tutto, per cancellare le leggi vergogna, per cambiare la «porcata» (loro definizione) della legge elettorale, per mettere subito mano alla legge sul conflitto di interessi. Però non è a causa del conflitto di interessi che di solito non stringo la mano a Dell’Utri.
No, non sono di quelli che considerano l’avversario politico un nemico. La ragione è che, una volta all’anno, i Padri Redentoristi mi invitano a Palermo a discutere con i ragazzi di quella città sulla loro appassionata lotta alla mafia. L’ultimo volta gli ho parlato dei miei incontri a New York con Giovanni Falcone. Mi imbarazzerebbe cambiare discorso.

E
penso - per forza - alla solitudine della gente di Vicenza che si domanda: «Perché nessuno ha parlato con me, che vivo qui?» Che cosa c’entra la politica internazionale, il rapporto fra grandi potenze, il legame fra leali alleati, con il traffico, i blocchi, le misure di sicurezza intorno alla casa in cui abito, al percorso tra casa e lavoro? Che cosa c’è di sovversivo nel dire ansia, perplessità, incertezza, desiderio di contare nella decisione, il timore legittimo di veder scardinata la propria vita, la propria routine quotidiana?
O anche: in quale città americana, oggi, si insedierebbero vasti impianti di un altro Paese, per quanto amico, senza coinvolgere cittadini, esperti, autorità locali?
Quando, dove un evento importante, certamente di grande rilievo nel rapporto tra i due Paesi, ma che cambia radicalmente la vita di una città, potrebbe diventare all’istante un «prendere o lasciare», un ultimatum perentorio, «o fate tutto quello che diciamo noi o ce ne andiamo via tutti», invece che l’inizio di un amichevole dialogo?
E’ antiamericanismo preoccuparsi delle strade, dei viali, del verde, del traffico, dell’ambiente in una città in cui adesso gli abitanti si sentono stupiti e soli?
Da quando è «sinistra radicale» domandarsi quanto tempo ci vorrà, dopo, per portare i bambini a scuola?
E poi è proprio il modello americano che guida molti cittadini. Ricordate «Erin Brockovich», l’indimenticabile personaggio vero interpretato al cinema da Julia Roberts, che mette a soqquadro la piccola comunità in cui vive perché imprenditori senza scrupoli negano l’inquinamento da mercurio che sta creando pericolo per la vita dei bambini? Erin Brockovich, quella vera, è una eroina della cultura contemporanea americana, non una sovversiva.
È la cultura dell’America libera e democratica che sta scuotendo, molto più della politica e della ideologia di alcuni, tanti abitanti di Vicenza. Vorrebbero un sindaco che dica la verità, un primo ministro che parla con loro, magari anche una Commissione Esteri del Senato italiano che parla di loro alla Commissione Esteri del Senato americano. Quella Commissione adesso è presieduta da un liberal democratico.
Quel presidente di Commissione - Joe Biden - ha visto il nuovo film «Bobby» di Emilio Estevez, sul giorno in cui Robert Kennedy è stato assassinato, il giorno in cui è cambiata la vita in America. Alcuni dicono: nel mondo.
Biden ha detto: «Sono orgoglioso di essere americano, di essere senatore, di essere nel partito di Robert Kennedy, di essere candidato alla presidenza degli Stati Uniti».
E Robert Kennedy dice, nel film, ha detto nella vita (e ha detto a me, quando viaggiavamo insieme durante la sua ultima campagna elettorale, nelle conversazioni con lui che allora andavano in onda tutti i giorni nei Tg della Rai): «Un paese come l’America non deve imporre la sua volontà agli altri popoli solo perché siamo potenti. Sono convinto che possiamo lavorare insieme. Siamo un grande Paese, un Paese altruista e compassionevole. E io intendo fondare su quanto ho detto la mia candidatura».
«Bobby» - un film a cui hanno partecipato volontariamente un bel po’ di «grandi» di Hollywood (da Martin Sheen a Demi Moore, da Sharon Stone a Harry Belafonte, da Antony Hopkins a William Macy) avrà forse un posto nella storia del cinema. Ma gioca certo un ruolo molto grande nella vita pubblica americana. Ha scritto il New Yorker Magazine: «Ci ha liberati da un incubo: siamo quelli della guerra che durerà trent’anni di cui ci parla sempre Dick Cheney o siamo quelli della pace che non dobbiamo mai smettere di cercare di cui parlava Bob Kennedy?». E ricordano che quando «Bobby» è stato ucciso stava vincendo tutte le elezioni primarie sul tema «pace in Vietnam subito», contro coloro che dicevano: «Non possiamo ritirarci dal Vietnam per non negare il sacrificio dei soldati già morti».
Adesso, proprio mentre sembra che l’Italia sia contro l’America solo perché vuole discutere la costruzione di una immensa base in una piccola città, e vorrebbe parlarne in amicizia e con amicizia, arriva «Bobby». E’ il ricordo ma anche il preannuncio di un’altra America.
E infatti, mentre scrivo, ho sul tavolo la prima proposta di legge in discussione nella nuova Commissione di Politica Estera del Senato. Porta la firma di Ted Kennedy, Joseph Biden e diciotto altri senatori. La legge, se approvata, chiede al Presidente di non espandere il numero delle truppe americane, gli insediamenti, le basi, e gli stanziamenti federali per le spese militari, fino a quando non si troverà una via d’uscita dalla tragedia in Iraq (che viene descritta come «disastro» e «guerra civile in atto» nella premessa della proposta di legge).
E il New York Times del 18 gennaio annuncia una risoluzione proposta da tutta la nuova maggioranza democratica al Congresso degli Stati Uniti. Dice: «Non è nell’interesse nazionale americano estendere i nostri insediamenti militari». E’ un messaggio che guarda a tutta la presenza americana nel mondo, tanto che aggiunge: «In particolare non è nell’interesse americano aumentare le truppe in Iraq». La risoluzione, nel testo originale, usa deliberatamente la parola «escalation» (termine sempre accuratamente evitato dal presidente Bush) proprio per evocare l’errore già commesso in passato, proprio per dire: «Da adesso si volta pagina».
Allora, perché non organizzare al più presto un incontro fra la Commissione Esteri del Senato italiano e la Commissione Esteri del Senato Americano, per parlare di Vicenza fra Paesi amici, Paesi che hanno sempre creduto, o tornano a credere, in ciò che ha detto Bob Kennedy: «Siamo un grande Paese, altruista e compassionevole. Possiamo lavorare insieme»? Perché non interrompere la solitudine dei nostri elettori che vedono accadere le cose senza sapere dove cominciano?
***
Torniamo insieme alla realtà, fuori dalla televisione, dove ci aspettano i cittadini che hanno ancora fiducia, che pensano a un nuovo partito - se ci sarà - come a una festa non come a una selezione dei tipi più adatti; dove ci aspettano persone che contano, comunque, sul partito che c’è, al quale milioni hanno dato il voto e tanti hanno investito attesa, speranza, identità, vita.
Torniamo per le strade, dove c’è la gente che il più delle volte cerca una spiegazione e un punto di riferimento per capire, più che la voglia di inscenare una protesta.
Andiamo da coloro che protestano per delusione, non per dissenso, non perché stanno andando a destra. Semplicemente non ci riconoscono nella pioggia di nuove proposte quotidiane di cui non avevamo mai parlato, e vorrebbero ritrovare le cose serie, necessarie e immediate su cui c’eravamo impegnati in campagna elettorale.
Perché non tornare al civile e fraterno punto di partenza dell’Unione? La nostra strada comincia dove finisce il mondo di abuso, di illegalità, di «leggi porcata», di protesi alla giustizia, di cifre false e di conti truccati che, per cinque anni, hanno deformato l’immagine dell’Italia. Non c’è niente di bipartisan nel nostro lavoro, non adesso, non fino al ripristino della normalità umana, politica, giuridica che abbiamo promesso.

furiocolombo@unita.it