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Unità: Cina, la scienza del Dragone

Pietro Greco

11/04/2007
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l'Unità

La Cina è diventata il primo fornaio dell’Unione Europea. Nel 2006 le esportazione cinesi nel nostro continente hanno raggiunto la cifra record di 191,5 miliardi di euro e hanno superato l’altro grande fornaio, gli Stati Uniti, fermo a 176,2 miliardi di euro. Per la prima volta, almeno nell’ultimo mezzo secolo, gli Usa non sono la fonte principale dell’import del Vecchio Continente. Per la prima volta il principale fornitore dell’Europa è a Oriente.
È una svolta storica. Anche e soprattutto perché la novità va ben oltre il mero dato quantitativo. La capacità della Cina di penetrare il mercato europeo è infatti dovuta sempre meno a prodotti a bassa intensità tecnologica e sempre più a prodotti hi-tech e a beni ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. Non solo e non tanto, dunque, scarpe e magliette, ma anche e soprattutto prodotti elettronici e informatici. In altri termini la Cina ha smesso di essere più competitiva di ogni altro paese al mondo solo per il basso costo del lavoro ma è diventata (iper)competitiva anche per l’alta qualità dei suoi prodotti (è già il secondo esportatore planetario di prodotti hi-tech).
La notizia è di portata storica, dicevamo. Ma non giunge affatto inattesa. E, soprattutto, non è isolata. È il frutto di una scelta strategica compiuta anni fa a Pechino. E si inserisce in un quadro di nuovo protagonismo non solo della Cina, ma di tutta l'Asia orientale e di altri paesi emergenti.
Il 2006, infatti, non ha registrato solo il record dell'export della Cina in Europa. È stato anche l’anno in cui la Cina, con 136,2 miliardi di dollari, ha superato per la prima volta il Giappone, fermo (si fa per dire) a 127,8 miliardi, tra i paesi che investono di più in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S). Oggi la Cina è seconda assoluta, dopo gli Stati Uniti, in questa speciale classifica. Gli Usa, per ora, sembrano irraggiungibili, dall’alto dei 330 miliardi di dollari che dedicano ogni anno alla ricerca. Ma gli investimenti cinesi crescono a un ritmo annuo che ormai sfiora il 25% (contro il 4 o 5% degli Usa). Nel giro di un decennio persino quest'altro primato americano potrebbe essere insidiato.
La capacità di Pechino di esportare hi-tech in tutto il mondo è direttamente correlata agli investimenti in R&S. Ed è dovuta a una precisa scelta realizzata dal governo poco più di dieci anni fa, allo scopo di rovesciare ribaltare definitivamente la politica di isolamento scientifico e tecnologico della Cina di Mao e porsi il medesimo, ambizioso obiettivo che l’Europa si è data a Lisbona nel 2000: diventare la regione leader al mondo nell’economia della conoscenza. Solo che mentre l’ “obiettivo di Lisbona” in Europa stenta a riempirsi di contenuti coerenti (accrescere gli investimenti in R&S), l’ “obiettivo di Pechino” può contare su risorse conseguenti messe a disposizione dal governo della Cina: ben pochi altri paesi nell’intera storia dell’umanità (forse solo gli Stati Uniti negli anni ‘50 dello scorso secolo) hanno mostrato di credere così tanto e in modo così concreto al valore strategico dello sviluppo scientifico e tecnologico, aumentando in maniera così rapida i propri investimenti in R&S.
Ma faremmo un errore se credessimo che, per quanto eccezionale, il caso Cinese è isolato. Il medesimo anno 2006 che ha visto la Cina superare per la prima volta il Giappone, ha visto anche l’India (38,9 miliardi) per la prima volta superare il Regno Unito (37,4 miliardi) e diventare la sesta potenza tecnoscientifica del mondo. Un dato tanto più significativo se si pensa che solo mezzo secolo fa l’India era ancora una colonia del Regno Unito.
E non è finita. Nel 2006 la piccola Corea del Sud, pur producendo la metà della ricchezza che produciamo noi italiani, ha investito in R&S più o meno quanto Italia e Spagna messe insieme. E più o meno sulla stessa lunghezza d’onda sono altre sette o otto “tigri asiatiche”. Perciò non desti meraviglia se il 2006 ha visto, ancora una volta per la prima volta, l'Asia (col 35,6% del totale mondiale) superare il Nord America (col 35,0% del totale mondiale) nella classifica dei continenti che investono di più in R&S.
D’altra parte, il 75% degli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo viene realizzato da paesi che affacciano sull’Indopacifico. E solo il 55% da paesi che affacciano sull'Atlantico del Nord (considerando l'Unione Europea tra questi). L’asse tecnoscientifico del mondo non è più tra l'Europa e l’America, come è verificato costantemente nell'ultimo mezzo millennio, ma ormai è tra l’America e l’Asia.
Tutto questo dovrebbe indurci a qualche riflessione. Stiamo assistendo a una svolta storica nella geopolitica mondiale. Il mondo sta diventando realmente multipolare. La sua capacità di sviluppo è sempre più legata alla produzione di conoscenza. Tutto questo offre nuove e inedite opportunità. Regioni del mondo da tempo ai margini della storia globale stanno diventando protagoniste. Ma ci propone anche nuovi ed enormi rischi. Il processo infatti non è privo di contraddizioni, come la crescente disuguaglianza sociale tra e dentro le nazioni e l'emergere di gravi problemi ambientali globali, regionali e locali.
Dobbiamo porci in maniera sempre più stringente il problema di come governare la società della conoscenza, per cogliere tutte le opportunità e minimizzare i rischi. Ma con la medesima urgenza dobbiamo porci il problema di quale ruolo può e deve avere l'Europa in questo processo. Dobbiamo percepirci come una fortezza assediata e chiuderci entro i nostri confini, o invece aprirci e accettare la sfida dei una competizione solidale? Possiamo assistere all’esplosione della società della conoscenza solo con intelligenti proclami (l’ “obiettivo di Lisbona”) o praticare politiche coerenti per essere co-protagonisti di questa nuova fase della dinamica culturale, sociale ed economica del pianeta?
Per l’Italia la domanda è ancora più pressante. Possiamo pensare di competere nell’economia della conoscenza, tra tutti questi dinamici protagonisti, se non iniziamo a modificare in profondità la specializzazione produttiva delle nostre imprese, passando, come i cinesi, dalla competizione nel settore dei beni a bassa e media tecnologia alla competizione nel campo dell'alta tecnologia?