Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità. Epifani: Le istituzioni sono in pericolo

Unità. Epifani: Le istituzioni sono in pericolo

Ribellismo e populismo minacciano il Paese»

23/06/2007
Decrease text size Increase text size
l'Unità

Guglielmo Epifani parla con l’Unità dopo aver concluso una telefonata. «Era Montezemolo: mi ha chiamato per scusarsi delle sue dichiarazioni - ci informa il segretario della Cgil - mi ha assicurato che non aveva intenzione di attaccare il sindacato, per lui le relazioni industriali sono fondamentali». Incidente chiuso, dunque? Tutto finito, dopo l’accusa di Montezemolo ai sindacati di «difendere i fannulloni»? «Naturalmente è bene che il presidente di Confindustria abbia chiarito le sue parole, ma le cose dette sono un salto di qualità negativa nella identità degli industriali, non ricordo affermazioni così gravi da parte di un leader degli imprenditori» argomenta Epifani che in questa intervista esprime tutta la sua preoccupazione per il forte disagio sociale, per le divisioni nel governo al tavolo del negoziato sulle pensioni e per la pericolosa aria di «diciannovismo» che minaccia le istituzioni democratiche.
Prima l’attacco alla politica e al governo all’assemblea di Confindustria, poi il «sindacato dei fannulloni». Dove va Montezemolo?
«Non lo so. Ma sono convinto che non si tratta di uscite estemporanee. Montezemolo dovrebbe riflettere bene sugli effetti dei suoi interventi recenti che configurano nei fatti un tentativo di delegittimazione di ruoli e funzioni del governo, delle forze politiche, del sindacato. In un momento in cui siamo davvero a un livello di guardia nella tenuta del Paese, tentare di colpire, come fa Montezemolo, una delle poche grandi organizzazioni di rappresentanza sociale capace di tenere insieme il mondo del lavoro, i pensionati, significa favorire le divisioni e le spinte corporative. C’è un’aria che non mi piace, e lo voglio dire chiaramente a Montezemolo».
Che cosa non le piace?
«Tira un’aria pericolosa, c’è un fermento di “diciannovismo”».
È un’affermazione molte forte...Ne è convinto?
«Certo. Assisto alla sollecitazione pubblica degli istinti più bassi, protestari, qualunquisti. Si alimenta un ribellismo verso le forme di responsabilità pubblica di coesione, si scatena la battaglia contro le tasse, si favoriscono i campanilismi e le chiusure corporative mentre si punta a colpire e a delegittimare i grandi corpi intermedi di rappresentanza sociale. È un clima che non mi piace: la politica non risponde più agli interessi generali e gli industriali, come novelli agrari, si infilano in questo vuoto. Vedo un pericolo per le istituzioni e condivido pienamente gli appelli del presidente Napolitano. La forza della nostra democrazia si basa sulla difesa delle istituzioni e il legame con l’Europa»
Ha paura che le nostre istituzioni siano a rischio?
«Mi limito ai fatti. Vedo che il governo e i partiti fanno molta fatica a rispondere alle esigenze del Paese, vedo che non si fanno le riforme auspicate, vedo che l’antipolitica si diffonde al Nord e pure al Sud. C’è bisogno di responsabilità, come quella dell’industriale Callipo, minacciato dalla violenza mafiosa: l’altro giorno ci ha accompagnato nello sciopero in Calabria perché riconosce nel sindacato un baluardo contro la criminalità nella difesa della democrazia e della convivenza civile».
Le sue parole, tuttavia, potrebbero far trasparire che anche il sindacato è in difficoltà?
«Il momento è delicato anche per noi, non ci sono dubbi. Ma il sindacato confederale si è assunto una grande responsabilità per salvare il Paese da chi vuole lo sfascio. È bene che si sappia. Cgil, Cisl e Uil sono impegnate in una difficile trattativa, restiamo uniti anche se non abbiano le stesse opinioni su tutto, restiamo uniti perché siamo l’unico riferimento per milioni di lavoratori, di pensionati, di precari. Su questo dovrebbe riflettere Confindustria. Un conto è essere forza critica e di cambiamento, un altro è essere agenti del degrado del sistema».
L’attacco al sindacato e al lavoro è esteso, forte. C’è stata la campagna della grandi giornali contro i nullafacenti, per licenziare gli statali. Il Sole 24 Ore ha visto in un tema della maturità un’ispirazione anti-industriale.
«Il lavoro è sotto tiro. Si fa strada l’idea che la centralità dell’impresa sia il valore assoluto, tutto il resto viene dopo. L’impresa dovrebbe difendere la propria identità ma anche vedere la propria parzialità per riconoscere il ruolo e il peso degli altri a partire da chi ci lavora. Quando Confindustria dice che la ripresa è merito delle imprese dice solo una parte della verità, ci sono anche i lavoratori. Come hanno dimostrato la Fiat, le banche, il sistema tessile, i servizi. Le grandi riorganizzazioni sono state possibili con gli accordi con i sindacati e il sacrificio dei lavoratori».
Avrà notato che dal costituendo partito democratico non si sono levate voci in difesa del sindacato dopo l’attacco di Montezemolo. Come mai?
«C’è qualche ritardo e forse qualche errore nel centrosinistra. D’altra parte non sono problemi nuovi: il tema del lavoro, come valore politico e culturale, noi l’avevamo già posto al penultimo congresso dei ds, lo abbiamo sottolineato nelle iniziative del nostro Centenario, lo ribadiamo oggi. Nel centrosinistra si dimentica o si trascura il lavoro pensando che imprese e consumatori siano i bastioni della società. Si indulge a un nuovismo di maniera e si perde il senso delle trasformazioni che attraversano il lavoro, si dimentica il contributo che il lavoro dà all'identità delle persone. Temo che questa perdita di sensibilità, questo smarrimento, influenzi anche il governo ed è per questo che la trattativa è molto difficile».
Epifani, diciamo le cose come stanno: governo e sindacati sono a rischio scontro...
«Il governo è diviso, questa è la sua fragilità. Se martedì prevale la linea di Padoa-Schioppa, l’accordo non si fa. Non ci sono altri margini di manovra. Il pareggio nella partita sulle pensioni non è previsto».
Il governo è pronto a rompere col sindacato? Se lo può permettere?
«Razionalmente e politicamente direi di no. Il governo non può permettersi una rottura. Ma nel governo mi pare che pochi stiano ragionando su questo rischio».
Il vostro avversario è Padoa-Schioppa?
«Il ministro Padoa-Schioppa ha una storia rispettabile, ma in questa vicenda accentua il suo ruolo tecnocratico rispetto a quello politico. Lo abbiamo visto l’altro ieri dopo aver chiuso un buon accordo per gli ammortizzatori sociali: l’intervento del ministro dell’Economia sembrava fatto apposta per far saltare tutto. Prodi ha pochi giorni per fare scelte decisive per il suo futuro: o è in grado di fare questa svolta, rispondendo alle attese di milioni di lavoratori, pensionati, precari, oppure fallisce. Entra in crisi. Non vedo alternative».
In questa congiuntura difficile, arriva Veltroni: pare che toccherà a lui guidare i democrats. Cosa pensa?
«La scelta di Veltroni, l’accelerazione per trovare il segretario del nuovo partito sono la conseguenza di questa crisi politica. La parte più responsabile del centrosinistra si è resa conto del baratro che si stava aprendo e anche in questo modo cercano di uscire dalle difficoltà. È un segno di maturità, di consapevolezza importante».
Ma lei non fa i gridolini di gioia per il partito democratico.
«Veltroni è il candidato più autorevole e naturale che ci possa essere. Ma non si deve pensare che una persona sola, per quanto capace, possa risolvere tutti i problemi del centrosinistra e del nuovo partito. Questa accelerazione. inoltre, rischia di aprire un problema immediato per la tenuta del governo».
Perché lei è così distaccato, su questo nuovo progetto?
«Non sono distaccato, ma sono sempre stato critico sui tempi e sui modi scelti, sul percorso, sull’indeterminatezza dell’identità del nuovo partito, sulle regole e sulla sua appartenenza internazionale. I fatti confermano questi problemi. A volte mi domando se il ruolo di cerniera dei ds nella pienezza dei loro poteri non sarebbe stato molto più utile in questa fase. Certo è che oggi sull’esito di questo progetto e la sua qualità, soprattutto pensando a un radicamento popolare, all’apertura di spazi di partecipazione, al rapporto col lavoro e al rinnovamento della politica, si gioca il futuro e la credibilità delle forze progressiste del Paese e anche la sconfitta dell’antipolitica e del populismo».

di Rinaldo Gianola