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Unità: Fannulloni, la finta emergenza

Pietro Greco

11/12/2007
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l'Unità

«Fin dalla mia prima esperienza italiana, quando studiavo all’università di Pisa, ho potuto constatare come gli scienziati italiani siano, con ogni probabilità, i lavoratori più volenterosi che mi sia capitato di incontrare». È con queste parole che Michael S. Gazzaniga ha voluto chiudere il libro, L’interprete, che è appena uscito per i tipi della Di Renzo Editore.
Sebbene Gazzaniga porti un cognome di inconfondibile origine italica, è un americano. E non è solo uno dei più accreditati studiosi al mondo del rapporto tra mente e cervello, ma è anche il direttore del «SAGE Center for the Study of the Mind» della University of California di Santa Barbara. Lavora, dunque, come dirigente di ricerca in un luogo, la California, dove si sa cos’è il lavoro in un settore d’avanguardia assoluta. Le sue parole smentiscono piuttosto seccamente quei luoghi comuni che descrivono le università e, più in generale, le strutture pubbliche italiane come «covi di fannulloni». Luoghi comuni che vengono ripresi, spesso, da illustri editorialisti e, di tanto in tanto, anche dal Presidente di Confindustria. Col risultato di spostare l’attenzione dalle questioni di fondo.
Non che i fannulloni non esistono nelle università e nei luoghi di lavoro pubblici in Italia. Ce ne sono millanta. Ma non sono la generalità. E non costituiscono il punto di crisi del declino economico del nostro paese.
Che i fannulloni tra i lavoratori pubblici non siano la generalità ce lo dicono non solo, in una dimensione aneddotica, osservatori privilegiati come Gazzaniga. Ma anche alcuni dati oggettivi - al bando «Ideas» proposto dall’European Research Council per giovani ricercatori, per esempio, i progetti degli italiani che hanno superato la prima selezione sono risultati secondi in numero assoluti e primi in termini relativi - e innumerevoli indagini statistiche internazionali: i dati dell’Ocse, per esempio, ci dicono che nel quinquennio 200/2004 i ricercatori italiani - con una media di 2,47 articoli a testa - sono risultati i più produttivi in assoluto al mondo, dopo i colleghi svizzeri. La loro produttività media è del 67% superiore alla media europea. E poiché anche la qualità dei lavori (misurata attraverso il numero di citazioni che gli articoli ricevono) risulta superiore alla media europea, possiamo dire - con Michael Gazzaniga - che i ricercatori italiani (quasi tutti pubblici) saranno pochi, ma non sono certo fannulloni.
Un ragionamento analogo si può fare anche in altri settori. Prendiamo la sanità. Ebbene, l’Italia - sfatando ancora una volta una serie di luoghi comuni - vanta uno dei sistemi sanitari più efficienti al mondo. Con un rapporto tra spesa e prestazioni, assicura l’Organizzazione Mondiale di Sanità, che è secondo solo alla Francia in tutto il pianeta. Non che non esistano episodi di malasanità e di sprechi. Tutt’altro. Ma se si parla solo di questi, se ne ricava un’immagine del nostro sistema sanitario del tutto fuorviante.
Ciò non significa che tutto va bene. Né nel settore pubblico, né per l’Italia nel suo complesso. Infatti da almeno venti anni tutti gli indicatori ci dicono che esiste un problema di produttività del lavoro nel nostro paese.
In primo luogo lavoriamo meno degli altri in Europa. Ma non perché siamo più fannulloni. Ma perché ci sono meno posti di lavoro. Dall’inizio degli anni ’90 il tasso di attività (ovvero il numero di persone in età da lavoro che lavorano effettivamente) in Italia è inferiore di dieci punti rispetto alla media dell’Unione Europea. Il che significa che da 15 anni almeno in Italia siamo stabilmente chiamati a fare in 50 ciò che in Europa fanno in 60 (produrre la ricchezza del paese).
Inoltre la produttività per singolo lavoratore italiano è in caduta libera: nel 1997 era superiore di 12 punti percentuali rispetto a quella media europea (Europa a 15), oggi è inferiore di 2 punti. Tra il 2000 e il 2003 la produttività del lavoro è addirittura diminuita. Non perché nelle nostre imprese siano aumentati i fannulloni, ma perché sono peggiorate, relativamente agli altri, le condizioni di lavoro.
I lavoratori italiani, per finire, hanno stipendi inferiori (in media tra il 10 e il 15%) rispetto ai loro colleghi del resto d’Europa.
In estrema sintesi: il vero problema del lavoro in Italia non sono i fannulloni nel settore statale, ma il fatto che in tutto il sistema produttivo lavorano poche persone, in un ambiente poco competitivo e con stipendi medi troppo bassi. Di questo risente il paese: che infatti cresce meno degli altri paesi e vede ridurre velocemente la sua ricchezza pro capite rispetto a quella europea. Nel 1996 la ricchezza media di un italiano era del 6% superiore rispetto alla media europea, oggi è inferiore dell’8%. In 12 anni abbiamo perduto il 14% di ricchezza relativa rispetto all’Europa.
È su questo che dobbiamo interrogarci, prima di tutto. Perché l’Italia ha imboccato la strada del declino? Ci può aiutare a trovare una risposta il quinto rapporto su «L’Italia nella competizione tecnologica internazionale», appena pubblicato da Sergio Ferrari e da un gruppo di suoi colleghi dell’Enea, dell’università la Sapienza di Roma e del Cespri-Politecnico di Milano presso la casa editrice FrancoAngeli.
La risposta è relativamente semplice. Oggi il settore trainante sia delle economie avanzate sia delle economia emergenti (in pratica di tutto il mondo) è l’alta tecnologia. Che cresce più di altri settori, occupa più di altri settori e paga stipendi in media del 20 o 30% di quanto succede in altri settori. L’Italia è l’unico paese ricco che non ha una specializzazione produttiva nell’alta tecnologia. Dobbiamo modificare la specializzazione produttiva del nostro paese.
La produzione di beni ad alta tecnologia e più in generale ad alta intensità di conoscenza richiede investimenti in ricerca scientifica. L’Italia investe troppo poco in ricerca scientifica. Ma occorre soprattutto una nuova politica economica del paese. Dobbiamo smettere di impelagarci in astiose discussioni sui dettagli e affrontare il cuore del problema: occorre un impegno da parte di tutti - stato, imprenditori, sindacati - per modificare la specializzazione produttiva del paese.
Non è un’impresa impossibile. Abbiamo le risorse umane per farlo. E abbiamo esempi concreti da imitare. All’inizio degli ’90 c’era un altro gigante malato in Europa, la Germania. I tedeschi non hanno pensato a modificare il loro welfare. Non si sono persi in sterili discussioni sui fannulloni (ci sono anche lì). Ciascuno - stato, imprenditori, sindacato - ha fatto la sua parte e tutti hanno accettato la sfida dell’alta tecnologia nell’economia della conoscenza. Oggi la Germania è tornata a essere la locomotiva d’Europa.
Nelle scorse settimane i tedeschi hanno deciso di investire un loro piccolo tesoretto: 3 miliardi di euro. Non lo hanno speso e nessuno ha chiesto di spenderlo per tagliare l’imposta sulla casa e neppure per abbattere il cuneo fiscale alle imprese. Lo hanno investito per creare cinque o sei nuovi centri di formazione e di ricerca di assoluta eccellenza.
Facciamo, dunque, come in Germania. Smettiamola di accapigliarci sui fannulloni e iniziamo a costruire il futuro.