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Unità: Far West Università

Una riforma di buone intenzioni, come quella varata da Luigi Berlinguer e che va sotto il nome di 3+2, ha scatenato una guerra che, a volerla nobilitare, si può chiamare di religione ma più volgarmente somiglia a quella ta agricoltori e allevatori in un unico Far West

20/06/2006
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l'Unità

Carlo Bernardini

Una riforma di buone intenzioni, come quella varata da Luigi Berlinguer e che va sotto il nome di 3+2, ha scatenato una guerra che, a volerla nobilitare, si può chiamare di religione ma più volgarmente somiglia a quella ta agricoltori e allevatori in un unico Far West (l’Università). Veniamo al sodo: Berlinguer constatò (ai tempi suoi, cioè prima che passasse il governo d'occupazione berlusconiano, con le truppe occupanti agli ordini del generale Brichetto) che l'età dei neolaureati italiani era, in media, molto alta, oltre i 27 anni; che le università avevano un numero enorme di studenti fuori corso magari impegnati per anni in una tesi di ricerca, che il numero degli abbandoni degli studenti era assai elevato, in media il 70% degli iscritti iniziali. Aggiungendo a tutto ciò che l'università italiana era diversa dalle altre, europee in particolare, e che spesso le nostre poche lauree andate in porto equivalevano a dottorati stranieri, Berlinguer pensò bene di adoperarsi perché il nostro sistema producesse più laureati e meno frustrati, agendo sula natura stessa dei titoli, sull'ordine degli studi e sulla complessità dei corsi. Nacque la formula 3 + 2, che richiedeva che gli universitari si rimboccassero le maniche e concepissero e organizzassero i loro insegnamenti in modo efficiente. Alcune Facoltà lo fecero (gli agricoltori) perché abituate a forme cooperative di gestione dei corsi di laurea: l'autonomia voluta già da Ruberti lasciava ampi margini di proposta, si trattava perciò solo di farla, quella proposta. Naturalmente, tutti gli «agricoltori» sapevano benissimo che si sarebbe trattato di proposte sperimentali e che nessuno avrebbe vietato di ottimizzarle nel tempo, con la pratica. Gli «allevatori», invece, avevano da pascolare ciascuno la propria mandria e quindi scarsa attitudine a collaborare. Non capirono il problema: incominciarono a mugugnare sempre più intensamente, sinché alcuni opinionisti dei giornali, tra cui il prof. Pietro Citati su Repubblica (che, a rigore, allevatore professionalmente non è, e tanto meno agricoltore) le sparò grosse, scrivendo che solo gli allevatori appartengono all'élite dirigenziale, che gli agricoltori sono solo tecnici, che gli animali devono pascolare liberamente su territori liberi e vasti, che se ci sono animali in eccesso meglio destinarli a lavori pesanti che non continuare ad allevarli per incrementare le greggi. Fuor di metafora, Citati scrisse (e non era la prima volta) che solo gli umanisti potevano aspirare alla dirigenza, che gli studenti in eccesso potevano fare i fruttivendoli o i falegnami e altre sublimi prospettive di questo tenore.
Siamo al punto, registrato dal frenetico scambio in rete attraverso l'associazione Andu di docenti universitari, che le posizioni si sono radicate e appaiono inconciliabili. Il sistema delle abitudini e degli stili di vita di agricoltori e allevatori è profondamente diverso; anche le offerte formative lo sono e nessuno oserebbe gridare che quella degli altri è inaccettabile. Eppure è così: se il contrasto non scoppia, il bubbone infetterà tutto il sistema: Questo è un caso di conflitto in cui manca una buona ideologia di riferimento, dalla parte dei giovani, con interrogativi di questo tipo:
1 - Una comunità nazionale deve o non deve aspirare ad avere un sistema pubblico di istruzione che raggiunga il maggior numero possibile di giovani?
2 - La cultura consiste forse soprattutto in forme di erudizione o in capacità operative?
3 - Perché preferire una straziante e inutile tesi di 300÷500 pagine, confezionata in più di un anno, a una dissertazione agile e concettosa di 30 o 40 pagine costruita in 3 o 4 mesi con una piccola ricerca personale?
4 - Perché preferire ciò che si faceva in 4 anni a ciò che si può fare in 3+2=5 anni, senza preoccuparsi anche di eventuali impieghi dei laureati nei primi 3 anni?
Penso che un motivo forte per avere gente giovane con un titolo valido sia quello di aprire gli occhi sul degrado a cui conducono le politiche della formazione che abbiamo appena superato con la caduta del governo Berlusconi. Ma, nelle condizioni al contorno a cui siamo tornati, i risultati dipendono solo dall'impegno e dalle idee che sappiamo metterci noi docenti.