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Unità:Federica e gli altri, in cattedra per 400 euro l’anno

L’ESERCITO DEI «CONTRATTISTI»

08/10/2008
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l'Unità

No, basta. Con l'Università italiana ho chiuso». È decisa Federica. La sua scelta è stata netta. E molto sofferta. Dopo dieci anni di lavoro pressoché gratis a La Sapienza di Roma, non poteva andare diversamente. Ora è negli Stati Uniti, a New York. Partita a cercare fortuna altrove alla «tenera età» di trentasette anni. «Ma cos'altro dovevo fare? Aspettare un altro contratto da mille euro l'anno? E poi un altro ancora, all'infinito?». Era il momento di darci un taglio: «Per me posto in Italia non ce n'era». Eppure Federica è solo una delle tante e dei tanti. Un caso tra gli altri e neanche quello più estremo. Lei è stata professoressa a contratto per un solo anno, ma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un'umiliazione che ha saputo fronteggiare solo con la fuga. «Mille euro l'anno per essere quello che magari hai sempre desiderato di essere». Un professore universitario, con lezioni frontali, sessioni d'esami, orario di ricevimento, laureandi da seguire. Ricerca compresa. Professori a pieno titolo, come un qualsiasi ordinario. Solo per cifre irrisorie. Per retribuzioni che vanno dall'euro simbolico alle duemila euro lorde l'anno. Tutto sommato a Federica non era neanche andata troppo male. Le mille euro nette che si è messa in tasca sono comunque più del doppio delle 400 lorde che sono toccate alle due colleghe che hanno firmato l'agognato contratto insieme a lei.
Se si sfoglia l'Ordine degli studi della Facoltà di Lettere de La Sapienza dell'anno scorso, però, si può ancora leggere il programma del corso di Federica. Teorie e tecniche del linguaggio cinematografico. Sul sito «c'è anche la mia foto». Dopo anni passati a studiare e pubblicare, a tenere seminari e a fare esami per parecchi professori del dipartimento, una vera soddisfazione. Anche per i genitori che in questi anni l'hanno sostenuta. E poi quando firmi magari hai anche la sensazione che qualcosa «comincia a consolidarsi», che una strada si delinei. «Per questo accetti tutto, anche di umiliarti pur di tenere un piede dentro».
Ora Federica è piuttosto dura con l'università italiana e con se stessa. «Ma solo perché quando preparavo i corsi e facevo lezione di fronte ai miei studenti, ero contenta». Il suo era un insegnamento fondamentale del corso di studi. Aveva oltre un centinaio di frequentanti e un gran numero di studenti che sosteneva l'esame. «Alla prima sessione si sono iscritti in duecento, ho passato un mese intero a fare esami». In tanti le hanno chiesto una tesi. «Ho fatto laureare una ventina di persone, con delle tesi più che soddisfacenti». Gli studenti non facevano distinzione tra Federica e un ordinario. «Per loro ero semplicemente una professoressa».
Poi però Federica ha cominciato a rifiutare le tesi. Il suo futuro era incerto e non sapendo che fine avrebbe fatto l'anno successivo, non voleva impegnarsi ancora. E infatti a gennaio di quest'anno ha saputo che non le avrebbero rifatto il contratto. Avrebbe potuto aspettare ancora. Magari l'anno prossimo un altro contrattino l'avrebbe anche spuntato, le suggerivano in molti. Ma Federica ha preferito fare la sua ultima sessione d'esami a marzo, le sue ultime discussioni di tesi a luglio, e poi partire. «Metterti nella condizione di dover mendicare 400 euro l'anno è veramente troppo».
Andrea, invece, nonostante «le crisi nervose e gli sfoghi sulla pelle», tiene ancora duro. A 43 anni, con alle spalle oltre tredici anni di precariato nelle università italiane, riesce a tirare avanti grazie «all'ironia e alla pellaccia dura che mi è venuta». Prima l'Università di Trieste, poi quella di Urbino e infine Roma, passando per tutti gli stadi del precariato universitario. Dottorato, borsista, assegnista di ricerca, CoCoCo, e naturalmente docente a contratto. Ad Urbino, alla Facoltà di Sociologia dove insegnava Letteratura e comunicazione, le docenze gli hanno fruttato un euro l'anno per i quattro che ci è stato. Il suo è diventato una specie di caso nazionale. «I colleghi in giro per il paese fanno dell'ironia» e si chiedono sarcastici se Andrea troverà mai un posto. Lui però è ottimista, «qualcosa si muove», dice. Fatto sta che anche quest'anno incasserà 700 euro per una cattedra di Critica letteraria.
Andrea però ha una smisurata passione per la ricerca e per la didattica, e nonostante qualche volta si senta «soffocare da questo Paese in declino», non è mai riuscito ad andarsene. «Ho molti colleghi che sono scappati, ma io credo che questo Paese abbia bisogno dei suoi cervelli». Una volta, tanti anni fa, aveva avuto la possibilità di andare a dirigere un dipartimento all'estero, ma non se l'è sentita. Ora non ha rimpianti. Neanche quando pensa alla sua condizione di precario «disperato». Perché, dice, «il precariato all'università non è solo quello delle paghe irrisorie o inesistenti, ma anche quello per cui non sai che fine farai l'anno prossimo, o il mese venturo. O domani».
Una logica «oscura» muove infatti i destini dei contrattisti. «Quasi mistica», dice Pietro. Lui, dopo il dottorato all'università di Venezia, aveva collaborato alla didattica per pochi spiccioli, ma lo scorso anno era riuscito ad andarsene con una borsa dell'università di New York. «5.500 dollari al mese e le condizioni ideali per fare ricerca». Sei mesi fantastici, dice ora che è rientrato. Avrebbe potuto rimanere «in quel mondo dove tutto è trasparente», ma è stato attirato di nuovo a Venezia da un assegno di ricerca. «Dopo l'esperienza americana avevo ottime carte per vincerlo». Invece l'oscuro potere decisionale dell'Università l'ha attribuito ad un altro. Ora Pietro ha una docenza a contratto a Storia dell'arte. Settecento euro per l'anno accademico. Ma si dà ancora sei mesi di tempo. «Se non succede nulla, prendo di nuovo il volo verso gli Stati Uniti».