Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità: I precari e quelle regole che lo Stato non rispetta

Unità: I precari e quelle regole che lo Stato non rispetta

Diritti negati

19/03/2007
Decrease text size Increase text size
l'Unità

precari e quelle regole
che lo Stato non rispetta

Luigi Cancrini
Nicola Luigi Siddu

Viviamo in Europa, in uno dei Paesi più ricchi del mondo, mondo che è percorso tuttavia dalla sofferenza silenziosa dei vinti, da storie di emarginazione e violenza che non fanno notizia.
Vorremmo dare spazio, in questa pagina, alla voce di chi rimane fuori dalla grande corsa che ci coinvolge tutti, parlando dei diritti negati a chi non è abbastanza forte per difenderli. Sono proprio le storie di chi non vede rispettati i propri diritti a far partire il bisogno di una politica intesa come ricerca appassionata e paziente di un mondo migliore di quello che abbiamo costruito finora.
Scrivete a cstfr@mclink.it

Sono un insegnante precario di 34 anni della provincia di Nuoro che ha scelto questo lavoro con molta passione e grande impegno di studio e soldi. Purtroppo la mia serietà si è scontrata, fin dal primo momento dell'accesso alla professione, con un sistema che pare pensato a tavolino per scoraggiare e deludere. Non so a chi convenga (anche se qualche idea ce l'avrei) ma il dato di fatto resta questo: studi, spendi, ti sacrifichi, ti sposti anche di molte centinaia di km per «rimanere a galla» o per migliorare la tua posizione in graduatoria e poi, dalla sera alla mattina, per qualche «bizzarria legislativa» dell'ultimo minuto tutti i tuoi calcoli vanno a farsi friggere. Un anno sei terzo o quarto e speri in una occupazione stabile e l'anno dopo sei cinquantesimo e ti vedi precario fino a sessant'anni. E la cattiva o buona sorte - perché di questo si tratta e non di meritocrazia - oggi ti schiaccia e domani ti salva senza logica alcuna e senza preavvisi. E noi, che tra i tanti doveri che dobbiamo assolvere, abbiamo anche quello di insegnare ai ragazzi il rispetto delle regole, ci troviamo sistematicamente a sperimentare sulla nostra pelle la violazione dei più elementari diritti civili e professionali. Io non ho più alcun rispetto per il datore di lavoro - lo Stato - che mi paga. Non lo rispetto perché non mi rispetta. Allo stato non si può parlare anche tramite coloro, i sindacati, che ci rappresentano solo seguendo una logica di grandi numeri che spesso è assai lontana dal giusto e dalla sana volontà civile di migliorare la scuola. Rispetto all'ultima novità, ovvero la sentenza della Corte Costituzionale sulla illegittimità del doppio punteggio di montagna, provo un forte senso di sdegno e disgusto. Non si può giocare con tanta leggerezza con la vita di tanti (o pochi che siano) che hanno scelto di sacrificarsi, dicendogli, dopo tre anni, che la gara l'hanno persa, pur essendo arrivati primi, solo perché il comitato organizzatore aveva sbagliato a mettere i cartelli lungo il percorso.

L’affermazione più terribile di questa lettera, di cui condivido pienamente i contenuti, è quella che riguarda i ragazzi «cui dobbiamo insegnare a rispettare le regole» mentre ogni giorno si sente, da dipendenti dello Stato, che queste regole non sono certe. Che non hanno rapporto, quando esistono, con la vita delle persone e con il senso comune. Proponendo il problema drammatico dell'impossibilità di credere in quello Stato da cui non ci si sente rispettati e di cui si deve invece continuare a professare e ad inculcare, da insegnanti, il rispetto. Sentendosi soffocare all'interno di una situazione in cui diventano inaffidabili anche gli interlocutori cui si credeva fino a ieri di potersi affidare: sindacati e forze politiche che avevano messo al centro del loro programma il rilancio e la valorizzazione della scuola pubblica.Scrive Nicola Tranfaglia in una interrogazione rivolta in questi giorni al ministro Fioroni che quella cui ci troviamo di fronte è una situazione in cui la situazione dei conti pubblici ha costretto il governo che tutti noi sosteniamo ad operare, anche nel 2007, tagli pesantissimi sulla scuola pubblica. In un settore, cioè, già pesantemente penalizzato negli ultimi anni da una disattenzione maligna di chi, Berlusconi e Moratti, voleva spostare sul privato gli investimenti dell'istruzione pubblica. Gli effetti di questa scelta li pagano gli insegnanti, gli alunni e le famiglie mentre aumenta il numero di allievi per classe, diminuiscono gli insegnanti di sostegno, si rende sempre più difficile il funzionamento normale delle singole istituzioni scolastiche. Come se tutto questo già non fosse grave, quello di cui più si parla, nei proclami degli economisti cui sempre di più si affida il destino di un paese che non ha bisogno solo della loro tabelle ma anche di un solido impegno riformista, è un aumento delle entrate prossimo venturo che deve tradursi non in un rilancio della scuola ma in una diminuzione delle tasse e in un aumento degli aiuti alle famiglie. Come se fondamentale per le famiglie, e soprattutto per quelle più deboli, non fosse la qualità dei servizi e quella, in particolare, della scuola.
Parto da qui, da una visione d'insieme del problema, perché vorrei inquadrare la sua polemica, caro Nicola, all'interno del contesto più ampio in cui essa si iscrive. Proponendole l'idea per cui il disagio di insegnanti che restano i meno pagati d'Europa e di quello di un precariato sottoposto, come lei giustamente nota, ad un variare capriccioso e sostanzialmente insensato di regole in continuo mutamento sono il risultato di quello che è, per me, un problema fondamentale. Quello del disinteresse della politica vera, quella che si fa con i fatti e non con le parole o con le promesse, per i problemi reali della scuola. Una istituzione di cui gli economisti collocano il funzionamento sul versante della spesa non su quello degli investimenti produttivi. Di cui, chi guarda le cose in questo modo, da questo punto di vista, auspica che si riducano e non che si aumentino i costi. Quello che importa agli economisti che lavorano sul Pil non sembra mai, nei fatti, il paese che avremo fra dieci anni, la sua capacità reale di produrre e di essere competitivo utilizzando le competenze e la cultura di chi in esso cresce, vive e lavora. Quello che importa sembra il giudizio, mese dopo mese, delle agenzie di rating, della banca europea o del Fondo Mondiale Internazionale: strutture cui assai poco interessa, purtroppo, il numero più o meno adeguato degli insegnanti di sostegno, la qualità della vita e lo stato d'animo di un precario come lei. Se questo è il mondo in cui viviamo, d'altra parte, qualcosa dobbiamo pur avere il coraggio di fare. Cominciando a ragionare da sinistra sulle priorità vere del paese, nel momento in cui, finita l'epoca dei commercialisti che la promuovevano dal governo, quello che si apre è il tempo di una lotta vera all'evasione fiscale. Ma cominciando anche a prendere sul serio, liberandosi delle strettoie del dibattito con i sindacati di settore, il grande problema di un personale che, per essere valorizzato, deve anche accettare di essere valutato. Superando insieme la intoccabilità di quelli che non hanno più sufficiente entusiasmo per il loro lavoro e la condizione intollerabile di subordinazione di quelli che ancora ci credono. Immaginando che il controllo non avvenga solo per via gerarchica ma su piani di reale democrazia. Valutando sul serio i meriti. Accettando e facendo conoscere l'idea per cui quelli che ricevono un servizio sono, in questo caso, studenti e famiglie ed accettando magari, se necessario, come già si fa per l'asilo nido che le famiglie che possono permetterselo contribuiscano alla spesa della scuola di tutti. Sono idee messe lì alla rinfusa. Serviranno, forse, ad aprire una discussione fuori dagli schemi.