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Unità: Il mondo è piatto e schiaccia i poveri

GLOBALIZZAZIONE FINALE: nel suo recente saggio Thomas Friedman scommette sul fatto che grazie alle tecnologie avanzate - e se politica e terrorismo non si metteranno in mezzo - vivremo un’era di innovazione e prosperità. Ma non per tutti...

19/08/2006
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l'Unità

di Franco Farinelli

Dall’inizio, cioè da circa un quarto di secolo, i discorsi sulla globalizzazione procedono senza storia ma attraverso piccole storie, si compongono di episodi e non di narrazioni, si alimentano non di spiegazioni ma di puntuali e limitate descrizioni. Il genere letterario cui tali testi si richiamano si fonda sul carattere frammentario ed estemporaneo, anzi impressionistico, dell’esposizione. In tal senso essi riflettono la natura stessa, estremamente dinamica e mutevole, del processo cui si riferiscono, ma si espongono al rischio di essere contraddetti il giorno dopo da quel che avviene: mai come ai giorni nostri spiegare il funzionamento del mondo è faccenda da giornalisti più che da scienziati sociali. A metà Settecento Kant poteva dire che la geografia serviva a leggere i giornali, oggi è vero il contrario: sono i quotidiani che spiegano la forma della faccia della Terra. Sicché basta leggerli per trovarvi, senza dubbio, veri e propri controfatti, di che insomma smentire quel che nell’ultimo libro, qualsiasi esso sia, vien dato in proposito per certo ed assodato.
Nel suo più recente volume (Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori, pp. 582, euro 22) Thomas L. Friedman scommette sul fatto che, se la politica e il terrorismo non si mettono di mezzo, la connessione in atto di tutti i centri di conoscenza del pianeta in una singola rete potrebbe dare l’avvio ad una straordinaria era di innovazione, prosperità e collaborazione fra aziende, comunità ed individui (non tra stati, si badi: il soggetto politico moderno per eccellenza non compare, se non di sfuggita, nell’analisi). Tale scommessa si fonda, per l’autore, su una triplice articolazione del processo di globalizzazione e su una triplice attuale convergenza tecnologica. Nella prima fase della globalizzazione, dalla scoperta dell’America fino a circa il 1800, sarebbero stati i paesi e i governi ad infrangere i muri e unire il mondo, in base alla quantità di forza (dagli squadroni a cavallo ai cavalli a vapore) a disposizione. In tal maniera il mondo sarebbe passato dalla taglia grande a quella media. La seconda età della globalizzazione sarebbe durata due secoli, tutto l’Ottocento e tutto il Novecento, interrotta soltanto dalle due guerre mondiali e, tra esse, dalla Grande Depressione degli anni tra il Venti e il Trenta. Per impulso delle multinazionali alla continua ricerca di mercati e manodopera si sarebbe passati in tale periodo dalla taglia media del mondo a quella piccola, e dalle prime locomotive ai cavi a fibre ottiche e al world wide web. E al volgere del millennio si sarebbe entrati nella terza ed ultima fase, che sta riducendo il mondo alla taglia extra piccola appunto sulla base dell’appiattimento del mondo stesso, dovuto al connubio fra personal computer (per cui ogni singolo individuo ha la possibilità di diventare l’autore dei propri contenuti in forma digitale), cablaggio a fibre ottiche (per cui all’improvviso ognuno può accedere ad un numero crescente di contenuti digitali a costi irrisori) e diffusione dei programmi per la gestione del flusso del lavoro (per cui i singoli individui sono in grado di collaborare allo stesso contenuto in forma digitale in qualsiasi punto del pianeta si trovano, indipendentemente dalla distanza che li separa). Ne consegue, tra l’altro, che le società minori o gli stessi individui possono sfruttare gli stessi vantaggi di scala abituali per le compagni maggiori, che i piccoli possono insomma comportarsi come i grandi e viceversa. Allo stesso tempo, ogni attività che si può digitalizzare e sminuzzare nelle sue parti verrà inevitabilmente scomposta e spostata in giro per il mondo, secondo la logica del minor costo cioè del più basso salario che è alla base della pratica dell’outsourcing, dell’appalto all’estero di servizi, lavori e attività che tante discussioni negli ultimi anni ha sollevato negli Stati Uniti.
L’outsourcing è soltanto una delle dieci forze che secondo Friedman hanno appiattito e stanno appiattendo il mondo. Le altre sono la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989, che ha incrementato le comunicazioni orizzontali tra le persone a scapito dei sistemi verticali dei regimi comunisti; la quotazione in borsa, avvenuta nell’agosto del 1995, di Netscape, cioè del primo autentico strumento di massa per navigare in quella specie di universo parallelo che è il world wide web, l’astratto spazio di informazione composto dalle miriadi di siti; l’integrazione e la standardizzazione del software per il flusso del lavoro; la possibilità di caricare sulla rete globale contenuti senza essere costretti a passare attraverso le tradizionali gerarchie organizzative o istituzionali; la delocalizzazione, cioè lo spostamento di una fabbrica da un paese all’altro; la collaborazione orizzontale tra fornitori, venditori e clienti che ha lo scopo di creare valore aggiunto (supply-chaining); la sincronizzazione delle filiere globali per grandi e piccole compagnie (insourcing); l’accesso per tutti, attraverso l’uso degli identici motori di ricerca, alla medesima quantità d’informazione (in-forming). Tali processi avvengono per lo più in modo digitale, mobile, virtuale, personale e allo stesso tempo in collaborazione, ed è proprio tale confluenza ad appiattire il mondo ogni giorno di più.
Thomas Friedman è un giornalista importante che ha vinto tre volte il premio Pulitzer, i cui editoriali di politica estera, scritti per il New York Times, iniziano a circolare con sistematicità anche sui nostri quotidiani, da quando moltiplica le sue critiche a Bush per la gestione della tragica avventura irachena. Egli sa benissimo, come confessa soltanto verso la fine del libro, che il mondo non è affatto piatto, e che l’espressione vale soltanto come licenza letteraria, per attirare l’attenzione sulla tendenza in questione. E non è certo l’unico a credere agli effetti rivoluzionari della rete. In un libro appena uscito (The Wealth of Networks. How social production tranforms markets and freedom, Yale University Press, pp. 528, $ 40) Yochai Benkler è al riguardo molto più deciso, e individua nella diffusione del software open source, prodotto cioè su base collettiva e volontaristica e scaricabile gratuitamente, un formidabile agente in grado di trasformare l’intero settore dell’informazione e della produzione culturale, accrescere l’autonomia politica, arricchire la sfera pubblica e sostituire alla cultura di massa una più spontanea cultura popolare: al punto che Hollywood, la Microsoft e i proprietari dei vecchi media, i giganti insomma dell’economia industriale dell’informazione basata sul copyright e sui brevetti, avrebbero già fatto fronte comune per tentare di difendersi. Quel che distingue l’analisi di Benkler da quella di Friedman è una più attenta considerazione degli interessi, delle strategie e dei limiti delle grandi imprese che attualmente conducono il gioco: strategie e interessi che nella visione di quest’ultimo troppo spesso appaiono occultati da quel che egli stesso chiama il suo «determinismo tecnologico», che consiste nel pensare semplicemente che l’intenzione è una conseguenza della capacità, che insomma se puoi fare qualcosa devi farla, altrimenti la faranno i tuoi concorrenti. In proposito i suoi eroi positivi sono gli imprenditori dei call center che in India sono al servizio delle maggiori industrie occidentali, e che simboleggiano il nuovo slancio economico del paese, e la Wall-Mart, la più grande società di vendita al dettaglio del mondo che ha il suo quartier generale a Bentonville, Arkansas. Leggiamo allora i giornali, proprio quelli su cui Friedman scrive.
Vi si apprende che nelle ultime settimane le compagnie spendono un sacco di soldi per pubblicizzare il ritorno nelle Isole Britanniche o negli Stati Uniti dei servizi ai clienti, a motivo delle frodi elettroniche messe a segno nei confronti delle banche locali da impiegati distanti migliaia e migliaia di chilometri. E ancora più istruttivo è il caso della Wal-Mart, che non produce nulla, ma gestisce un sistema che distribuisce merci in tutto il mondo, coinvolgendo migliaia e migliaia di fornitori, distributori, operatori portuali, funzionari doganali, spedizionieri e trasportatori «in una catena accuratamente armonizzata per operare come un’orchestra» che non smette mai di suonare. Ma alla fine dello scorso luglio, dopo più di otto anni di tentativi, Wal-Mart si è ritirata con gravi perdite dalla Germania, cedendo i suoi 85 negozi al suo più diretto rivale, il gruppo Metro. Tra i motivi dell’insuccesso il più evidente sembra la forte concorrenza dei discount già esistenti in un paese, come quello tedesco, dove il consumatore è molto più parsimonioso che altrove e poco abituato, a differenza di quello americano, a tenere larghe scorte in casa. Ma esistono altre, meno immediate e più illuminanti ragioni. La prima è d’ordine urbanistico. Per entrare nel 1988 nel mercato tedesco Wal-Mart rilevò i magazzini di due catene di seconda fila, ritrovandosi in tal modo con un guazzabuglio di negozi, dispersi l’uno rispetto all’altro e spesso in località svantaggiate. E d’altra parte (e ciò risulta decisivo) le severe leggi tedesche sull’uso del suolo urbano le hanno impedito per tutti questi anni di costruirne di nuovi, sicché mai in Germania essa è riuscita ad esercitare sui fornitori locali lo stesso strapotere che è abituata a far valere altrove. La seconda ragione riguarda la cattiva relazione con i sindacati, tipica di Wal-Mart in ogni paese ove quest’ultimi esistono. Lo ammette, come nel libro anche Friedman riporta, il suo stesso amministratore delegato: «Io ritengo che il nostro compito sia istituzionalizzare l’impegno nei confronti della società nello stesso modo in cui abbiamo istituzionalizzato l’impegno nei confronti del consumatore. Credevamo che buone intenzioni, buoni negozi e buoni prezzi avrebbero fatto dimenticare alla gente le cose in cui non eravamo altrettanto bravi; ma ci sbagliavamo».
La lezione non potrebbe essere più chiara: per i soggetti attivi della globalizzazione come le multinazionali la società, quella che noi chiamiamo opinione pubblica, è nient’altro che l’insieme dei consumatori. Non soltanto per tal verso si esaurisce la parabola, disegnata quasi mezzo secolo fa dal giovane Habermas, del passaggio dal pubblico culturalmente critico al pubblico consumatore, di cultura come d’altro. Ma tocca proprio a quest’ultimo, immemore di ogni funzione critica, rappresentare il modello per la costituzione di quel che resta della sfera pubblica, che coincide in tal modo con le sole opinioni dei soggetti in grado di intervenire nella definizione del mercato. Per dirla con le parole dello stesso Friedmann: nell’ultima fase della globalizzazione, quella che stiamo vivendo, non esiste praticamente nulla che non sia vantaggioso per il capitale, anche se soltanto alcuni lavoratori e alcune comunità trarranno vantaggio da tale situazione, e altri proveranno sulla propria pelle i dolori che l’appiattimento del mondo provoca.
È molto spiacevole, ma è proprio così. In definitiva, continua Friedman, la nuova ricchezza sarà accaparrata in misura crescente da quei paesi che sapranno fare tre cose fondamentali: dotarsi di un’infrastruttura adeguata al funzionamento del mondo piatto; promuovere i processi educativi e le capacità intellettuali che consentano ad un numero crescente di cittadini di fare innovazione e lavoro ad alto valore aggiunto; stabilire una struttura di governo efficiente e all’altezza della situazione, fondata su giuste politiche fiscali, leggi sugli investimenti e sul commercio, un adeguato sostegno alla ricerca, leggi precise sulla proprietà intellettuale e infine una leadership capace ed ispiratrice. Un simile programma ne ricorda un altro, quello che nel nostro paese inizia a muovere i primi passi, sicché il libro di Friedman può anche essere letto come il testo che, senza proporselo, ne spiega l’oggettiva necessità, illustra il carattere obbligato (sul piano planetario) dell’affermazione della parte politica di cui esso è espressione. Ma resta un dubbio. È un bene o un male che le leggi urbanistiche tedesche siano così severe da non consentire alle grandi catene di installarsi dove vogliono, difendendo in tal maniera la qualità della vita dei cittadini? Oppure il bene e il male (o, a dispetto di tutto il parlare che se ne fa, la qualità della vita, per non dire più in generale il potere) sono categorie che nel mondo piatto non hanno diritto di cittadinanza, e perciò sottratte, all’orizzonte di tale mondo, alla riflessione?