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Unità-Il nuovo libro bianco sulla ricerca L'Europa è ferma a cinque anni fa

BRUXELLES Nessuno degli obiettivi prefissati a Lisbona è stato raggiunto. Siamo superati da Usa, Giappone e Cina Il nuovo libro bianco sulla ricerca L'Europa è ferma a cinque anni fa di ...

25/07/2005
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l'Unità

BRUXELLES Nessuno degli obiettivi prefissati a Lisbona è stato raggiunto. Siamo superati da Usa, Giappone e Cina

Il nuovo libro bianco sulla ricerca L'Europa è ferma a cinque anni fa

di Pietro Greco

L'Unione europea si sta giocando la possibilità di entrare nella società della conoscenza. I suoi investimenti in ricerca scientifica e tecnologica languono, mentre nel resto del mondo industrializzato crescono e nei paesi emergenti, come la Cina e l'India, addirittura galoppano. Ad allontanarsi non è solo l'obiettivo di Lisbona - l'Europa leader mondiale entro il 2010 - ma, addirittura, la possibilità stessa di entrare nella "knowledge-based economy".
L'immagine dell'Europa che traspare dalle "Key figures 2005 for science, technology and innovation" - il rapporto su ricerca, tecnologia e innovazione presentato martedì scorso a Bruxelles dalla Commissione Europea - è quello di un atleta forte, ma ormai invecchiato, che proprio non ce la fa a tenere il passo dei suoi giovani e vigorosi concorrenti. Gli altri corrono, l'Europa sta ferma.
I 25 paesi dell'Unione europea ogni anno investono, in ricerca scientifica e tecnologica, l'1,9% della ricchezza che producono (Pil). I suoi tradizionali competitori, gli Stati Uniti e il Giappone, spendono molto di più: il 2,6 e il 3,1% dei rispettivi Pil. Alla lunga questa differenza strutturale può produrre una vera e propria divaricazione.
Si sta creando, infatti, una nuova economia, fondata su un triangolo ai cui vertici ci sono l'informatica, la biologia e le nanotecnologie. E solo chi la produce, quella conoscenza, può entrare in questo triangolo e competere nei settori strategici dell'hi-tech, dove il valore aggiunto del sapere è di gran lunga superiore al costo del lavoro e al costo delle materie prime. Il futuro economico dell'Europa è in questo settore. Perché nel mondo della produzione matura, dove il costo del lavoro e il costo delle materie prime sono decisivi, non c'è possibilità di competere coi paesi in via di sviluppo. O l'Europa costruisce il suo nuovo futuro economico sulla conoscenza, o il "modello europeo", il welfare, il benessere diffuso rischiano di svanire. Questa e non altra è la posta in gioco. Peraltro lucidamente individuata a Lisbona nell'anno 2000 dai rappresentanti dei paesi membri dell'Unione.
L'Europa ce la può fare, per tradizione e capacità a entrare e persino a guidare la società della conoscenza. A patto di crederci. E, quindi, da rimuovere gli ostacoli che si frappongono al cammino.
Il primo è la specializzazione produttiva delle aziende del continente. Orientata verso la produzione di beni che richiedono meno investimenti in ricerca. E, infatti, solo il 56% degli investimenti europei in ricerca e sviluppo sono spesi dalle aziende, contro il 63% degli Stati Uniti e il 74% del Giappone.
Il secondo è di natura organizzativa. Non esiste una politica di ricerca dell'UE: esistono 25 diverse, spesso contraddittorie politiche nazionali di ricerca.
Il terzo, forse il più strutturale, riguarda la spesa. Quella dell'Unione (1,9% del Pil) è di circa un terzo minore rispetto a quella di Usa e Giappone. Di qui l'obiettivo di Lisbona: portare gli investimenti in ricerca al 3% del Pil entro il 2010.
Sono passati cinque anni da Lisbona. Con quali risultati? Beh, con quelli illustrati martedì scorso. Nessuno degli ostacoli è stato rimosso. Le aziende europee stentano a ridefinire la loro specializzazione produttiva, lo spazio europeo della ricerca ancora non c'è (anche se si sta cercando di organizzarlo), le differenze di "vocazione" tra i paesi membri tendono ad accrescersi, invece che a diminuire. Ma, soprattutto, gli investimenti in ricerca non sono aumentati. Anzi sono stagnanti: crescita zero. Eravamo e restiamo all'1,9%. L'obiettivo del 3% appare ora un miraggio.
E sì che, tutt'intorno all'Europa, è un'esplosione di dinamismo. Negli Usa crescono gli investimenti pubblici e, dopo qualche anno di crisi, anche quelli privati. Il Giappone ha stanziato somme enormi a favore della ricerca accademica. Ma, soprattutto, sta esplodendo la ricerca nei paesi cosiddetti emergenti. In pochi anni, per esempio, la Cina da paese marginale è diventato il terzo per spesa (dopo Usa e Giappone), il secondo per numero di ricercatori (dopo gli Usa) e il primo assoluto per crescita degli investimenti. Tra il 1997 e il 2002 Pechino li ha aumentati al ritmo del 10% l'anno e, dal 2002, la crescita sfiora ormai il 20% annuo. Il dinamismo cinese è tale da fungere da grande attrattore. Gli investimenti in ricerca delle aziende Usa in Europa sono aumentati dell'8% tra il 1997 e il 2002, ma del 25% in Cina.
D'altra parte non c'è solo il dragone. La ricerca è in forte espansione ovunque in Oriente: India, Corea, Thailandia, Indonesia, Singapore, Taiwan. La sensazione è che se finora la scienza moderna è stata un "fatto transatlantico" (tra Europa e Usa, con la parziale eccezione del Giappone), ora sta diventando anche un fatto "indopacifico". Un'evoluzione epocale. Il motore culturale e, quindi, economico del mondo si sta spostando. L'Europa ne ha piena consapevolezza. Ma non sembra avere le forze per partecipare alla corsa. Rimira, con giusto orgoglio, il suo dinamico passato. Ma è incapace di muovere un passo per costruire il suo futuro.