Unità: L'anno che ci ha ridato l'Ulivo
di Piero Sansonetti
Giusto un anno fa, l'8 gennaio, l'Ulivo tenne una manifestazione a Roma in piazza del Campidoglio. La piazza fu scelta perché è una piazza simbolica, importante, ma non grandissima. Si riempie con due o tremila persone. Però non si riempì del tutto. La manifestazione era di solidarietà con l'ex ministro Renato Ruggiero - un uomo vicino alla Fiat e all'ala moderata del capitalismo italiano - che era stato scelto sei mesi prima da Berlusconi come ministro degli Esteri. Ruggiero poi era entrato in rotta di collisione con Bossi e con le componenti più reazionarie della coalizione, e Berlusconi aveva scelto di difendere Bossi e di cacciare Ruggiero dal governo. Ruggiero si era dimesso il sei gennaio.
La manifestazione dell'Ulivo dell'otto gennaio fu importante. Fu una specie di metafora, fece da specchio allo stato nel quale si trovava l'opposizione. Debole in piazza, debole nel legame con la gente, e quindi priva di capacità di mobilitazione; abbastanza opaca e subalterna nei suoi obiettivi. Molti criticarono la manifestazione pro-Ruggero. Che opposizione è un raggruppamento che riesce solo a schierarsi con la parte meno "feroce" della maggioranza?
L'espulsione di Ruggiero dal governo fece precipitare il "patto" silenzioso tra la coalizione messa insieme da Berlusconi e una parte della borghesia italiana. E cioè mise con le spalle al muro quella parte della borghesia e dei ceti medi - compresi i gruppi di potere vicini alla Fiat - che avevano scelto Berlusconi, seppure con molte diffidenze, come l'unico leader al quale era possibile affidare l'incarico di rilanciare e ammodernare il capitalismo italiano, riducendo il ruolo dei sindacati e semplificando le relazioni tra politica ed economia. I primi sei mesi di governo del centro-destra avevano messo in discussione la possibilità che Berlusconi portasse a compimento quel mandato. Dal momento che Berlusconi si era occupato solo dei problemi suoi, dei suoi amici e delle sue aziende, e non si era applicato ad un serio e coerente disegno di restaurazione. L'espulsione di Ruggiero dal governo ruppe le ultime illusioni.
La manifestazione dell'otto gennaio, un po' scombiccherata e piccola, fu l'ultimo atto del vecchio Ulivo e della vecchia opposizione. Avvenne in un clima politico nazionale che era un misto di rassegnazione e fermento. Da un lato c'era l'Ulivo, debole, diviso, incerto, pauroso, che stava vivendo il momento più difficile della sua esistenza; dall'altro c'erano due grandi novità: la ripresa del sindacato e il sommovimento che da almeno sei mesi stava scuotendo l'ala sinistra dell'opposizione, e cioè la nascita e la crescita impetuosa del movimento no-global. In dicembre si era avuto il primo serio episodio di opposizione al governo Berlusconi: era stata bloccata la riforma della scuola voluta dalla Moratti. Bloccata, però, non in parlamento, ma dal movimento degli studenti. Neanche un mese dopo l'otto gennaio nacquero i "girotondi", che in parte sono stati il frutto di un risveglio nella sinistra tradizionale, spinta dal grande agitarsi del sindacato e del movimento no-global, in parte sono stati il risultato proprio della fine dell'illusione "borghese", cioè del berlusconismo per-bene e dell'anti-berlusconismo moderato. I girotondi diedero all'Ulivo una spinta formidabile. Portarono radicalità, vivacità, e si concentrarono su alcuni obiettivi molto chiari e popolari: la giustizia, lo stato di diritto, le legalità.
Se mettiamo a confronto l'opposizione così come essa era un anno fa e quella di oggi, avvertiamo un abisso. Non solo perché quella di oggi è enormemente più forte. Ma soprattutto perché è piena di idee, di suggestioni, di progetti che un anno fa neppure si sognava. Ed è un'opposizione larga, pluralista. Recentemente il politologo inglese Ralf Darendhorf ha scritto un articolo nel quale analizza il funzionamento delle società occidentali moderne, e denuncia l'assenza di opposizioni. Dice che i governi lavorano senza opposizione. Cita i casi dell'America, della Francia, della Gran Bretagna e dell'Italia. Sono quattro casi a se, non cumulabili. Tralasciamo i primi tre. Nel quarto caso Darendhorf sicuramente sbaglia: non è vero che oggi in Italia non ci sia opposizione. Forse è dagli anni '70 che non c'era un'opposizione così robusta, vasta e impegnata. Che rende molto difficile l'azione del governo. E ne ha bloccato, finora, le iniziative più significative: riforma dell'articolo 18, riforma delle pensioni, riforma della scuola. Erano tre degli obiettivi principali di Berlusconi, insieme al quarto e cioè la riforma delle tasse. Berlusconi ha dovuto rinunciare anche al quarto obiettivo (o almeno ha dovuto ridimensionarlo drasticamente, visto che le modifiche fiscali approvate con la Finanziaria non hanno nulla a che fare con la riforma che Forza Italia aveva promesso e che avrebbe portato a una formidabile spostamento di risorse dai ceti deboli verso i più ricchi). La rinuncia alla riforma delle pensioni in parte è dovuta alla crisi economica, in parte al fatto che il governo non è riuscito a mettere mano a robuste modifiche del welfare che potevano comportare forti risparmi sociali e liberare risorse e danari per tagliare le tasse ai ceti più ricchi.
Almeno dalla primavera in poi la battaglia parlamentare è diventata feroce. Lo è diventata soprattutto dopo la prima prova di forza in piazza dell'Ulivo, che fu ai primi di marzo (il 2 marzo per l'esattezza, e cioè venti giorni prima della marcia della Cgil del 23 marzo)e portò in strada, a Roma, seicentomila persone che venivano da tutt'Italia. Da quel momento in poi, nonostante la oggettiva debolezza numerica dei gruppi parlamentari dell'Ulivo, che dispongono di cento parlamentari in meno rispetto alla maggioranza, il governo ha avuto enormi difficoltà nell'imporre leggi come la famosa Cirami (studiata per far saltare i processi a Previti e a Berlusconi), la Finanziaria e la devolution (ferma alla prima lettura); su altre leggi, come quella - di grande valore simbolico - del conflitto di interessi, è ancora fermo e non si può prevedere come andrà a finire la battaglia. Diciamo che negli ultimi mesi - nonostante i litigi, le divisioni, le piccole battaglie interne, non sempre del tutto comprensibili - l'Ulivo si è molto rafforzato. Lo ha dimostrato di nuovo il 23 novembre, tornando in piazza a Milano e a Bari contro la legge Finanziaria, con centinaia di migliaia di persone.
Oggi il problema non è di capire se in Italia c'è un'opposizione e quanto è forte (c'è ed è forte). Il problema è di capire quali sono le sue prospettive e se, e come, saprà dare organicità e strategia politica alla grande quantità di energie che sono state sprigionate nell'anno passato.
Oggi l'opposizione ha una sua espressione parlamentare molto agguerrita, ha ancora una sua forza notevole nei "girotondi", che godono di un discreto favore nei mass media, ha dalla sua parte un formidabile movimento sindacale (che è diviso, ma non era mai stato così agguerrito da due decenni a questa parte), ha la sua ala sinistra fuori dell'Ulivo - e cioè Rifondazione - che ha aumentato i consensi, ed ha la forza notevolissima, sia sul piano delle idee che della capacità di mobilitazione, dell'opposizione sociale, cioè del movimento no-global che raggruppa settori radicali di sinistra e larghe fasce del mondo cattolico dentro e fuori dalla Chiesa.
Per disegnare una mappa dell'opposizione si possono usare criteri molto diversi. A seconda dei criteri che si usano, le opposizioni appariranno una, o due, o tre o anche molte di più. I problemi sul tappeto, non ancora risolti, sono moltissimi. Cioè sono molti gli argomenti sui quali ci si divide e attorno ai quali si svolgono epiche battaglie. Alcuni di questi argomenti riguardano solo una parte dell'opposizione, alcuni la coinvolgono tutta. Per esempio c'è la questione della leadership e la questione delle "regole interne" che arroventa i gruppi dirigenti dell'Ulivo e ha un'enorme visibilità perché appassiona molto anche i giornali, ma non sembra affatto interessare la massa dei cittadini. E poi c'è una questione, assai più intricata e complessa, che è quella della scelta della linea politica, e che può essere semplificata disegnando due opzioni: una riformista classica e una radicale. L'opzione riformista punta alla riconquista del governo, all'alleanza fra i tradizionali ceti e gruppi di sinistra e settori abbastanza ampi dei ceti medi e della borghesia (e anche gruppi politici centristi), e confida nella ripresa del ciclo "socialdemocratico" che ha governato l'occidente nella seconda metà degli anni 90 (da Clinton in poi) e che è stato bruscamente interrotto dalla inaspettata vittoria di Bush, di Berlusconi e poi degli altri partiti della destra europea. L'opposizione radicale invece vuole cambiare tutto e dare guerra al liberismo, cioè all'attuale establishment che guida il capitalismo internazionale, alle sue linnee politiche, ai suoi interessi economici, rovesciando la tendenza alle privatizzazioni, alle concentrazioni dei capitali e dei poteri, e alla supremazia del profitto sullo Stato.
La questione della leadership e quella politica non sono coordinate, e questo finora ha creato una discreta confusione. Anche perché i due "campi politici" nei quali l'opposizione si è schierata hanno un confine abbastanza labile e attraversano i partiti. Il campo riformista, ad esempio, ha al suo interno la maggioranza dei Ds e della Margherita, cioè dei due partiti più grandi, ma comprende anche settori del sindacato e dei girotondi. Altri pezzi di Ds, della Margherita e dei Girotondi sono tra i radicali, insieme ai no-global a Rifondazione e alla sinistra sindacale.
In realtà la gran parte parte dei leader che si propongono (o che sono proposti da altri) per dirigere l'opposizione e/o per essere candidati al ruolo di premier, sono nel campo riformista dell'opposizione (forse solo Cofferati è fuori). Questo rende il campo riformista molto più litigioso del campo radicale. I vari gruppi che lo compongono esprimono alti tassi di ostilità gli uni per gli altri.
Del resto, due cose sono sicure. La prima è che in una coalizione di centro-sinistra è abbastanza scontato che il leader - cioè il candidato alle elezioni - sia su posizioni più vicine al centro, e quindi è naturale che tutti i candidati in lotta siano nel campo riformista. La seconda cosa sicura è che per puntare a vincere la battaglia contro Berlusconi non si può fare a meno di una alleanza tra riformisti e radicali. Esiste un pezzo del riformismo italiano in grado di fare da ponte, cioè di mediare, di accogliere alcuni punti di vista dei radicali e di unire - se vogliamo chiamarle così - le due sinistre? Se esiste toccherà a questo pezzo di riformismo la direzione dell'Ulivo. Cioè la leadership reale, che poi probabilmente si esprimerà anche con il diritto di indicare il candidato. Se invece non esiste è abbastanza probabile che l'opposizione alla lunga perderà il suo mordente e si dividerà in due tronconi. Sarà sconfitta. Come le è sempre successo, fin qui, negli ultimi 150 anni. Con l'unica eccezione, che non è stata esaltante, del quinquennio '96-2001.
Probabilmente sarà proprio nel 2003 che sapremo se l'opposizione ce l'ha fatta o è tornata a suicidarsi. Forse lo sapremo prestissimo, nelle prossime settimane, non appena gli americani inizieranno la loro guerra in Iraq e chiederanno, tra gli altri, l'appoggio italiano. Allora vedremo se la tragicità della guerra unirà l'opposizione, e le restituirà un'anima comune, o se tornerà a dividerla e farla a brandelli.