Unità: L’«Emmatematica» e puoi toccare la geometria con le mani e lo spago
Docente di scuola media, Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana Conversando con... Emma Castelnuovo
Giovanissima insegnante, quel che disse in un convegno di colleghi a Sévres, in Francia, fu uno scandalo. Era il 1948, fu accusata di voler far scuola «par les mains sales», quelli con le mani sporche, e accompagnata fuori dall’aula. Poco male, alle espulsioni Emma Castelnuovo era abituata. Fresca di laurea, a fine agosto del 1938 vinse il concorso per insegnare al tecnico inferiore - quella che oggi è la media - ma il 1 settembre entrarono in vigore le leggi razziali: fuori gli ebrei dalle scuole. Così iniziò a insegnare nella scuola privata della comunità ebraica - ma occhiutamente sorvegliata da un commissario governativo - vicino al Celio prima, a lungotevere poi. Fino all’occupazione tedesca. Una vita straordinaria, quella di Emma Castelnuovo. Un’insegnante straordinaria - chi, come me, ha avuto la fortuna di frequentare cinquant’anni fa le prime due sezioni della media Tasso, a Roma, lo sa - l’esile ragazza scambiata, il primo giorno da docente, con un’allieva e severamente rabbuffata. Questa energica donna, gli occhi chiari e curiosi, rendeva l’odiata matematica un piacere, una finestra aperta sul mondo. Non a qualcuno dei suoi allievi: a tutti. Discussioni aperte, lavoro per gruppi, temi scritti a rappresentare ragionamenti e deduzioni (temi di matematica? chi l’aveva mai visti negli anni 50-60?). Se una classe diventava una piccola comunità scientifica, era solo nelle sue lezioni.
La professoressa racconta, nella sua casa inondata di luce e di verde sulla Nomentana: «Mi son resa conto subito, fin dai primi anni, che l’insegnamento della matematica non andava. Si chiamava geometria intuitiva, ma miniaturizzava il programma delle superiori ricalcando “Gli elementi” di Euclide, 300 a.C. Ferma, statica, basata su postulati: astratta. È invece il movimento, l’azione ragionata sul concreto a diventare teoria. Dunque, con il professor Enriquez abbiamo organizzato un’attività di conferenze, l’Istituto Romano di Cultura matematica: 5 anni di conferenze, dibattiti, studi. Uno di noi fece una relazione sul libriccino del matematico Clairaut «Elementi di geometria», che nel 1741 sosteneva che Euclide no, non andava bene. Vero è che la ribellione era fomentata dalla sua amante, madame de Chatelet, che non capiva nulla degli assiomi euclidei. E preferiva il calcolo delle aree dei terreni».
Quel gruppo di matematici doveva essere fantastico: come lei, per cui gli allievi hanno coniato la felice crasi di «Emmatematica». Da quel clima nasce il primo eretico testo, «Geometria intuitiva», 1949, edizioni Carabba. «Si fidarono del giudizio di un mio amico - dice Castelnuovo - e forse ebbero torto: un anno dopo la casa editrice fallì. Poi tornò, ma solo per materie letterarie, il mio libro passò alla Nuova Italia diretta da Codignola, poi a Rcs, dove c’è Paolo Mieli. Lo sa? Anche lui è stato mio allievo». Un vezzo, ricordare il fallimento editoriale: il suo è uno dei libri scolastici più ristampati del secondo ‘900. Sarà stata la comunità di matematici eretici, o la ferma tenacia dell’insegnante. Da lì è cambiato l’insegnamento della matematica in tutte le scuole. Abbandonati i vecchi testi, la geometria diventa una «cosa che si fa con le mani».
Problema: due aree con lo stesso perimetro sono equivalenti? Non c’è chi non risponda di sì. Ecco, qui serve un pezzo di spago. Con le mani ne fai un quadrato, un cerchio, un triangolo... ma basta tirarne i due capi per capire: l’area è pari a zero. Così tocchi le proprietà del cerchio, l’area più grande, non serve la lavagna elettronica, basta uno spago e le tue mani. Prima il meccano, poi le più economiche strisce di cartoncino legate con i fermacampione, gli stuzzicadenti, gli elastici e i cordini. Le regole, le proprietà, le vedi con le mani, le senti con gli occhi. E il rapporto con Jean Piaget, lo psicologo svizzero fondatore dello sviluppo cognitivo? «Conoscevo i suoi lavori, ho voluto conoscerlo. Quando passai a Ginevra, al suo istituto non c’era, ma l’assistente mi disse: chiami, gli farà piacere. Così la mattina dopo, davanti a un caffè nella Ginevra alta, arrivò in bicicletta. Mi chiese: come si insegnano gli angoli, e l’infinito che racchiudono? Una persona straordinaria, ci siamo tenuti a lungo in contatto».
Dal Tasso questo modo di insegnare ha fatto scuola. Anche grazie ai laureandi di matematica - spediti a imparare da Lucio Lombardo Radice e Bruno De Finetti - che si sedevano nelle classi assieme agli alunni, e «coglievano» la meraviglia della scoperta, quando si capiva perché le travi delle gru sono fatte di triangoli, come Michelangelo ha disegnato la piazza del Campidoglio, i giochi dei pavimenti romanici, gli archi degli acquedotti. «Un giorno la lezione la teneva Nicoletta, una laureanda, e io ero seduta in un banco accanto a un ragazzo. Lui mi bisbiglia: professoressa, non ho capito. Suggerisco: alza la mano e dillo. Allora lui si alza e dice: “Scusi, io e la professoressa non abbiamo capito”. Ancora mi vien da ridere». Questo era il modo di insegnare: discutere, ridere, mostrare cose, disegnare statistiche sulla fame del mondo, la pena di morte o la mortalità infantile; prendere per mano chi ha più difficoltà e accompagnarlo. Senza stucchevole giustificazionismi, con intelligente fermezza. Hai l’occasione, devi imparare. È importante per te, così si diventa uomini. «In Italia c’è una grande libertà. Di non far nulla, nel peggiore dei casi. Di sperimentare e lavorare seriamente, nel migliore. È l’unico paese al mondo in cui gli ispettori si affacciano nelle classi, ben che vada, quando un insegnante è agli inizi. Poi scompaiono; se gli alunni diventano bravi e i genitori soddisfatti, c’è grande libertà». Alla fine dell’anno, poi, ci furono le esposizioni: gruppi di lavoro che costruivano, mostrano, spiegavano a visitatori esterrefatti quel che avevano imparato in classe. Spesso rispondendo a tono a professori esterni o laureandi. Altrove non è così. Quando questa piccola, straordinaria docente nel ‘77 è andata con l’Unesco in Niger («ma non confondetela con la Nigeria, per carità») a incontrare insegnanti e alunni, è riuscita anche lì a montare una esposizione («e non si può immaginare la fatica di trovare due chiodi o delle bacchette di legno a Niamey», ricorda) coinvolgendo intere classi, commuovendo il rettore dell’università, ha infastidito gli ispettori francesi («sì, nonostante l’indipendenza sono i francesi che hanno in mano tutto, là») che hanno cercato di scoraggiarla. Indomita, ha ottenuto la sua classe e i sorrisi dei ragazzi felici di ritrovarla: bravissimi ricettivi, intelligenze straordinarie. E ha fatto di nuovo un’esposizione. Amaduk, Salem, Sakou le sono rimasti nel cuore. Come personale vanto ricorda - tra i commenti del “dopo mostra” richiesti ai ragazzi romani come a quelli di Niamey - quel che scrisse uno dei suoi ragazzi nigerini: «Con questo studio della matematica ho capito che un nero può avere la stessa intelligenza di un bianco».
Per questo s’è appellata al Presidente della Repubblica che la onorava: «La matematica ha poche parole, precise, nette. È la matematica che dev’essere usata per insegnare l’italiano ai bambini immigrati. È intuitiva, è facile, aiuta a creare gruppi, a superare le differenze». Il suo rammarico? «Ora i ragazzi non sanno più usare le mani. Sembra niente, è una tragedia. Lavorare con le mani fa pensare, fa vedere il mondo con altri occhi. La tv è va bene, ma il movimento è troppo rapido, il concetto sfugge, si subisce. E poi quei tagli alla scuola... Via ore di insegnamento, via i professori. Temo che i miei colleghi abbiano ragione di essere avviliti».