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Unità: L’Italia e la «questione scientifica»

Dal declino economico del paese al degrado ambientale e al dissesto idrogeologico del territorio - di cui le recenti vicende sull’isola d’Ischia sono l’ennesima, tragica dimostrazione - tutti i grandi nodi che il governo deve provare a sciogliere sono nodi intessuti, anche, con i fili della «questione scientifica».

12/05/2006
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l'Unità

Pietro Greco
Ora che anche l’elezione del Presidente della Repubblica si è conclusa - come meglio non si poteva, con Giorgio Napolitano che è salito sul colle del Quirinale - l’attenzione ritorna dalla politica istituzionale alla politica di governo. E con essa ci auguriamo ritorni l’attenzione sulla centralità della «questione scientifica» e sulla consapevolezza che essa è ormai gran parte della «questione italiana».
Dal declino economico del paese al degrado ambientale e al dissesto idrogeologico del territorio - di cui le recenti vicende sull’isola d’Ischia sono l’ennesima, tragica dimostrazione - tutti i grandi nodi che il governo deve provare a sciogliere sono nodi intessuti, anche, con i fili della «questione scientifica».
Le urgenze sono tante. Martedì scorso, Umberto Veronesi ha autorevolmente denunciato l'ultimo regalo del governo Berlusconi: il taglio dei fondi utili a far tornare qualcuno (pochi, invero) dei tantissimi cervelli in fuga dal nostro paese. Bene: occorre ripristinare rapidamente e rapidamente aumentare questi fondi.
Altre urgenze sono state tuttavia ricordate su queste pagine nei giorni scorsi e riguardano la struttura interna della nostra comunità scientifica: occorre, rapidamente, restituirle l'autonomia che le ha sottratto Letizia Moratti con le sue (contro)riforme e i commissariamenti in serie. E occorre farlo smantellando i privilegi corporativi e/o baronali che pure esistono nelle nostre università e nei nostri centri di ricerca.
Occorre favorire l'ingresso dei giovani, se vogliamo partecipare con creatività alla competizione scientifica internazionale e se non vogliamo che tra pochissimi anni i nostri laboratori e le nostre università, per estremo paradosso, non possano coprire i vuoti lasciati da una classe di ricercatori anziani che sta raggiungendo l'età della pensione.
Occorre riconquistare la nostra presenza in Europa, seriamente minata dal governo berlusconi. Di più: occorre che l'Italia spinga con forza per creare quello spazio europeo della ricerca che saggiamente Antonio Ruberti indicava come uno dei luoghi di forgiare l'identità e insieme la competitività dell'Unione.
Occorre, infine, contrastare quello spirito aziendalista che il ministro Moratti e più in generale il governo Berlusconi hanno cercato, peraltro grossolanamente, di infondere nelle nostre strutture di ricerca con l'idea - perniciosa - che la ricerca di base o curiosity-driven è un lusso che non possiamo permetterci. E che tutto quello che possiamo fare è lo sviluppo tecnologico per le industrie. Nessuno si illuda. Non c'è possibilità di costruire un solido «knowledge-system», un sistema produttivo fondato sulla conoscenza, senza uno sviluppo armonico della conoscenza stessa in tutte le sue forme. Il Giappone, che in passato ha tentato la strada dell'applicazione pura (con ben altri mezzi e ben altra cultura) sta rapidamente cercando di ritornare indietro.
Occorre, infine, iniziare a muoversi rapidamente verso gli obiettivi di Lisbona (cercare di entrare da leader nella società della conoscenza) e di Barcellona (investendo almeno il 3% in ricerca).
Ed è questo il secondo punto. Questi obiettivi non sono importanti solo per la nostra cultura (e non sarebbe davvero poca cosa). Ma hanno un interesse del tutto generale. Sono una priorità assoluta. Perché è l'unico modo che abbiamo per cercare di uscire dal declino economico strutturale in cui siamo entrati da quando è iniziata la nuova globalizzazione. Declino strutturale che si fonda su scelte realizzate negli anni '60: perseguire un modello di «sviluppo senza ricerca», riuscendo a competere nei settori più maturi dell'economia con un mix di furbizia imprenditoriale, genialità artigianale, svalutazione della lira e basso costo del lavoro.
Oggi tutto questo non è più possibile. Sia perché, con la moneta comune europea, non possiamo ricorrere più né alla svalutazione della lira, sia perché non possiamo competere con il basso costo del lavoro dei paesi a economia emergente.
Abbiamo solo una strada davanti a noi: modificare la specializzazione produttiva del nostro sistema di imprese e cercare, in un concerto europeo, di produrre beni ad alto valore di sapere aggiunto. Abbiamo le intelligenze e le capacità formative per realizzare questo obiettivo. Non possiamo, però, perdere tempo. Ora è il tempo delle scelte. Prime fra tutte le scelte di governo.
Nei mesi scorsi il centrosinistra ha dimostrato di avere una buona consapevolezza di questa urgenza assoluta per il paese. Per questo confidiamo che la caduta di attenzione mediatica negli ultimi giorni sia del tutto contingente. E che Romano Prodi saprà dare segnali forti e inequivocabili non solo e non tanto alla comunità scientifica. Ma anche e soprattutto al paese. Dimostrando, già dalla formazione del governo, che quello della ricerca e dell'università non è un ministero minore e isolato. Ma è un ministero - è il ministero - che, collegato strettamente ad altri e guidato da una personalità culturalmente e politicamente autorevole, dovrà assolvere al ruolo primario di arrestare il declino del paese e costruire le fondamenta di un nuovo e più solido sviluppo