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Unità: La cultura del buio

Ciò che state per leggere è un pezzo dedicato all’ignoranza. Assai dilagante. Anzi, all’analfabetismo culturale. Non meno debordante. Una pratica sempre più cara alle classi medie. Possibilmente giovanili

05/12/2007
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l'Unità

Fulvio Abbate

Ciò che state per leggere è un pezzo dedicato all’ignoranza. Assai dilagante. Anzi, all’analfabetismo culturale. Non meno debordante. Una pratica sempre più cara alle classi medie. Possibilmente giovanili. Si tratta, in breve, del pezzo più pessimista che abbia mai scritto. In assoluto. Ma per cominciare sarà bene spiegare cos’è mai la cultura. Semplificando molto, c’è da immaginare un insieme di informazioni, una collezione di dati e di concetti, una rete di idee, di nomi, di volti, di pensieri, di nessi. Se dico Picasso oppure, metti, Modigliani, mi aspetto che l’interlocutore che ho davanti sappia contestualizzare il mio riferimento. Sappia andare oltre il “collo lungo”. Non mi rassicura affatto scorgere un buio pesto nei suoi occhi.
Partiamo però da un esempio concreto. Poche sere fa a Roma si è esibito un famoso e straordinario drammaturgo, tale Fernando Arrabal. L’ultimo dei grandi interpreti della tradizione surrealista. Un signore che, nella sua vita, ha conosciuto questo e l’altro mondo: un tesoro di nomi e di esperienze che corrispondono al meglio della cultura dello scorso secolo: Pablo Picasso, Salvador Dalì, Andrè Breton, Eugene Ionesco, Samuel Beckett, Roland Topor, per esempio. Tutti nomi che a un pubblico medio dovrebbero suggerire molti pensieri, un paesaggio montuoso di eventi. Molte idee, molte suggestioni, un cosmo intero. Nomi cui corrispondono altrettanti, diciamo, “link”, ovvero circostanze e parentesi storiche e, appunto, culturali. Dal Surrealismo alla memoria della guerra civile spagnola, dal teatro dell’assurdo al semplice concetto di avanguardia artistica ecc. ecc. Si tratta di cose complicate? Sì. Ma anche la percezione del buio pesto negli occhi del pubblico è altrettanto problematica. Peggio ancora se resta immutata perfino quando Arrabal, convinto di semplificare così lo spettro del suo discorso, prova ad accennare ad altre figure meno ingombranti, meno ciclopiche, più “popolari” come Sergio Leone, oppure Pasolini. Anche in quest’altro caso, buio pesto negli occhi del pubblico medio. Medio in tutto. Bene, io sto lì (dimenticavo: l’incontro con Arrabal si è svolto alla «Locanda Atlantide», un locale di tendenza che si trova nel quartiere studentesco di San Lorenzo) e non ce la faccio proprio a non sentirmi a disagio. Soffro tremendamente per il povero Arrabal e perfino per me stesso che, fino a prova contrario, intuisco il vuoto, la palude. Sto lì e subito penso: ma è stato sempre così? La risposta che alla fine mi do, è semplice, arriva subito. No, non è stato sempre così. Personalmente, da ragazzino, avevo mille curiosità, mille interessi, avevo perfino un conto rateale con l’agente Einaudi di zona, leggevo un sacco di roba, perfino stronzate, ma ero comunque divorato dalla curiosità: andavo al cinema, guardavo le mostre, ma soprattutto cercavo di realizzare nella mia testa un capiente deposito ordinato di idee e di immagini. Come dicono i linguisti, cercavo di piazzare nelle caselle necessarie ogni frammento dello scibile culturale, depositavo le idee sugli “attaccapanni” giusti. Ero forse molto intelligente? No, ero solo uno dei tanti. Ma soprattutto non avevo, e con me mille altri amici, una idea della cultura legata al divismo, nel senso che le idee per me esistevano in quanto tali, andavo così a cercarle, tentando in questo modo d’avere chiara la loro realtà “diacronica”, ovvero un calendario, una quadreria dei fatti e dei personaggi. Insomma, non ero uno spettatore sordo, e poi, soprattutto, cercavo di non essere un alfabeta. Cosa sia accaduto dopo non mi interessa provare a intuirlo, mi basta per il momento prendere atto del paesaggio di macerie. Non voglio neppure fare ritorno alle parole di Pier Paolo Pasolini sull’omologazione di massa, non voglio neppure accettare il discorso sul passaggio epocale che stiamo attraversando, desidero soltanto accennare alla realtà del mio disagio. Assoluto. Desolante. Sarà mica il caso che su questo deserto si apra una bella discussione, che parta dalla scuola e passi attraverso i giornali e la stessa televisione. Una discussione che parta dalle aste, dallo zero assoluto di percezione dialettica della realtà.
f.abbate@tiscali.it