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Unità: La democrazia indecisa

di Nicola Tranfaglia

25/02/2007
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l'Unità

La democrazia

indecisaNicola TranfagliaQuanto accaduto al governo prodi rivela la presenza di antiche anomalie della storia repubblicana e di fattori che dipendono da contingenze e problemi che in tempi più recenti si sono aggravati.

A sentire testimoni e osservatori italiani ed europei che seguono con attenzione la politica nazionale è probabile che la caduta del governo Prodi abbia avuto a che fare con la chiara contrarietà dimostrata negli ultimi sette mesi da soggetti di particolare importanza nella società italiana.

Il Vaticano, prima di tutto, che ha ingaggiato, attraverso l’attuale pontefice Benedetto XVI e la conferenza episcopale italiana presieduta dal cardinale Camillo Ruini, una battaglia violenta amplificata dai grandi mezzi di comunicazione di massa, e soprattutto da una Rai ancora controllata da Berlusconi, contro alcune leggi esistenti (come quella sull’aborto) e su quelle messe in calendario dal centro-sinistra.

Non è possibile dire, come qualcuno fa, che l’eliminazione del problema delle coppie di fatto dal programma di governo non significhi un segnale assai chiaro. O che quell’eliminazione derivi da quel gruppo di parlamentari contrari al disegno di legge. Ed è paradossale che la cosa si possa attribuire al voto negativo del sette volte presidente del Consiglio che fino ad oggi aveva sostenuto il governo Prodi. È evidente che ha contato assai di più la precisa posizione dei vertici della Chiesa di Roma.

Il secondo aspetto che vale la pena sottolineare riguarda la politica estera che con D’Alema ha riportato, da una parte, l’equilibrio a lungo atteso tra la nostra alleanza con gli Stati Uniti e, dall’altra, la battaglia per intensificare il cammino, comune ai maggiori Stati europei, per l’unificazione politica e costituzionale del vecchio continente.

L’ex presidente Cossiga in un primo tempo se ne è fatto protagonista, salvo smentire il giorno dopo quel che aveva detto, ma non c’è dubbio che un “partito americano” esista ancora nel nostro Paese a più di quindici anni dalla fine dell’Urss e della guerra fredda. Se quel partito non esistesse, il fenomeno Berlusconi sarebbe forse durato di meno.

Il terzo elemento simbolico è costituito a sua volta da un grande imprenditore come Pininfarina che ha espresso lo scontento della maggioranza degli industriali di fronte a un governo che con la Finanziaria ultima ha dato molto agli imprenditori ma che ha una provenienza e una mentalità che non piace loro. Questioni come l’avversione alla precarietà del lavoro, la lentezza nella riforma delle pensioni, la presenza nella maggioranza di forze politiche che si riferiscono prima di tutto ai lavoratori fanno sì che la diffidenza della Confindustria è rimasta immutata, pur dopo gli errori assai gravi fatti da Berlusconi a livello economico.

Il quarto elemento è costituito dalla grave malattia infantile che affligge ancora in Italia la sinistra, o parte di essa, e che si traduce in un massimalismo irresponsabile ancora presente in partiti che pure hanno modificato il loro programma e di fatto praticano una linea favorevole non solo alla lotta parlamentare ma anche a riforme graduali per conseguire i propri obbiettivi. Il caso dei senatori Ferdinando Rossi e di Franco Turigliatto chiama in causa i meccanismi di selezione delle candidature e di formazione culturale dei parlamentari che hanno sostenuto in passato vocazioni rivoluzionarie presenti nella sinistra e derivate dall’Unione Sovietica come dalla rivoluzione cinese.

Accanto a queste anomalie che, nella maggior parte dei casi, rinviano a tempi lontani ma, con tutta evidenza, ancora presenti nella costituzione materiale del Paese, emergono dalla crisi altri mali presenti fin dalla crisi dei partiti scoppiata a metà degli anni Settanta.

Diciamo la verità. Da quel momento i partiti politici italiani hanno perduto quella duplice funzione di scuola di democrazia e di officina di elaborazione critica e culturale. Sono diventati in larga parte macchine di potere e di organizzazione del consenso nella società come nelle istituzioni. E la crisi successiva, all’inizio degli anni Novanta, non ha modificato il loro ruolo, semmai l’ha cronicizzata all’interno di un Paese di debole tradizione democratica, mostrata prima dall’avvento al potere di Silvio Berlusconi e poi dal suo ritorno al potere all’inizio del ventunesimo secolo.

L’intreccio tra politica e affari è continuato nei decenni successivi, ha favorito la crescita delle mafie, l’espandersi dei conflitto di interessi, la corruzione pubblica, il degrado delle istituzioni, il distacco sempre maggiore tra il mondo della politica e la società civile.

Né si può dire che i governi di centro-sinistra siano riusciti a fermare in maniera adeguata il degrado politico e culturale che ha caratterizzato l’ultimo quindicennio repubblicano.

C’è da stupirsi, di fronte a un simile processo di lungo periodo, se alcuni osservatori sperano ancora che una nuova legge elettorale possa risolvere da sola la crisi italiana? O che altri cerchino ancora, in maniera ossessiva, l’uomo forte capace di semplificare i problemi italiani e portare l’Italia al livello di altre democrazie europee?

Troppo semplice una diagnosi come questa, che pure capita di leggere in questi giorni sui più diffusi quotidiani del Paese. Anche in passato molti si sono persuasi che l’ingegneria costituzionale potesse risolvere i nostri problemi, che sono anche strutturali a livello politico piuttosto che legati all’opera dell’uno o dell’altro leader.

Vero è che gli italiani non hanno ancora deciso se la democrazia moderna sia un obbiettivo primario da perseguire ad ogni costo con la capacità di sacrificare ideologie vecchie e nuove e interessi privati al bene di tutti o se invece, rispetto ai problemi di oggi e di domani, contino di più le più strane utopie come quelle della secessione padana o quella dell’imprenditore di successo.