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Unità-La guerra è finita

La guerra è finita di Furio Colombo Roma, marcia della pace. Due milioni contro la guerra. Due incidenti minori contro Fassino, contro alcuni Ds, che erano nel corteo. Fassino è stato criti...

21/03/2004
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l'Unità

La guerra è finita
di Furio Colombo

Roma, marcia della pace. Due milioni contro la guerra. Due incidenti minori contro Fassino, contro alcuni Ds, che erano nel corteo. Fassino è stato criticato con foga per essersi fatto vedere in Campidoglio, dove c'erano anche alcuni berlusconiani, giovedì scorso, accanto ai gonfaloni dei Comuni Italiani. [CAP3]I suoi contestatori hanno fatto saltare di gioia gli amici della guerra, e autorizzato alcuni a dire - sia pure in malafede, dato l'immenso spirito di pace di tutto il corteo - che "i pacifisti si azzuffano". Attaccando Fassino, una scheggia nervosa del corteo si è presa una bella soddisfazione bipartisan. Come dire: piuttosto che farla passare liscia al segretario Ds, meglio fare felici Fini, Vito e Schifani. Per alcuni, evidentemente il mondo è piccolo piccolo e punteggiato di piccole imprese imbarazzanti.

Restano gli altri due milioni di manifestanti. Ad essi, e a tutti coloro che - anche senza marciare - vogliono liberarsi dall'incubo e dalla celebrazione della guerra, è dedicato l'articolo che segue.

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Il terrorismo 11 settembre/11 marzo è un gesto di disperazione di chi vuole assolutamente la guerra e cerca di far saltare i nervi in modo da provocare come risposta la guerra. Ciò accade in un mondo che si allontana sempre di più dalla guerra. Il terrorismo ha fallito con la Spagna.

La Spagna di Zapatero è più forte, non più debole. Piange e onora i suoi morti ma non sta al gioco. Comincia di qui il lungo percorso della cultura della pace. Non l'altra guancia. Un cambio di cultura. Fare la guerra militare al terrorismo produce lo scontro fra due culture di morte. Ognuna dice all'altra: ti faccio vedere io quanta morte posso dare. E io te ne do di più. C'è un senso? Forse questo: il terrorismo è la disperante constatazione che la guerra non è più possibile. Eserciti, bombe, arsenali sono tutti ferri vecchi. Tanto che bisogna usare parole vecchie, vecchi ricatti, discorsi da 1915 per far andare i giovani a combattere e per tenere a bada l'opinione pubblica che non vuole più partecipare a celebrazioni e funerali. I Bin Laden sono personaggi immensamente pericolosi ma è infantile immaginarli alla Kipling e pensare di stanarli a cannonate. Prima dell'11 settembre ci ha pensato la Russia in Cecenia a mostrare che cosa orrenda è la guerra come risposta al terrorismo. Dopo l'11 settembre - pur non discostandosi, con spirito di solidarietà, dall'America - ci ha provato Pannella a far capire quanto può essere moderno e diverso il mondo, fatto di comunicazioni che scorrono, immagini pubbliche che si incrociano, eventi che accadono sotto gli occhi di tutti. Certo era difficile realizzare la sua proposta: rimuovere Saddam Hussein, lui e la sua corte, senza stragi, senza sangue. Certo, richiedeva una chirurgia di altissima e raffinata qualità: estrarre un dittatore non eletto e non amato da un corpo altrimenti mediamente sano, e dargli un passaggio salva-vita. Era difficile ma siamo in un mondo moderno, pubblico, aperto, televisivo, tutti in contatto con tutti, con tante diplomazie anche arabe, tanti parlamentari disposti a dare una mano.

Pensate per un istante al volto sporco e stordito del Saddam Hussein estratto dal buco. Quell'uomo è stato crudele ma non è mai stato stupido. Quel buco deve essere sempre stato il suo incubo. Se invece di annunci di sterminio contro i quali gli è stata data solo la possibilità di fare la faccia feroce, gli fosse stata offerta davvero l'occasione di scomparire, lui che sapeva benissimo di non poter vincere con le armi, davvero avrebbe fatto spallucce? Forse avrebbe accolto una sfida così terribile e tragica uno che, alla fine, si uccide in un bunker, non uno estratto come un topo da un buco. E pensate davvero che gli iracheni, guardia repubblicana o no, avrebbero cosparso di bombe, imboscate e kamikaze un Paese funzionante, intatto, relativamente moderno, pronto a riprendersi, senza governatori Usa, con le Nazioni Unite come tutor, e un ritorno senza sangue alla libertà?

Affiora, nella confusa società dello spettacolo in cui viviamo (che include l'odioso spettacolo della guerra) l'idea della pace preventiva. Un esempio straordinario di pace preventiva è la "Iniziativa di Ginevra". Ricordiamolo: decine di politici, generali, intellettuali, scrittori (tutti i più grandi) di Israele hanno lavorato per un anno con palestinesi come loro, politici, militari, ex responsabili di servizi segreti, intellettuali, scrittori. Mi ha detto lo scrittore israeliano Meir Shalev nel nostro incontro dello scorso ottobre a Gerusalemme: "siamo tutti persone con figli giovani che ogni giorno, ogni sera potrebbero morire di esplosione in Israele o di carro armato nei territori di Palestina". Stiamo parlando di uomini e donne che contano molto (ognuno è noto nel suo Paese) rischiano molto (rischiano come tutti, nella vita israeliana e palestinese, ma rischiano anche, da persone impegnate a fare la pace, rischiano, come Rabin e Sadat, il dissenso armato dei loro compatrioti). E non rappresentano niente. Non sono governo (i rispettivi governi si irritano), non hanno potere. Ma hanno discusso e composto fino ai dettagli un piano di pace e di convivenza per dire, ciascuno al proprio popolo e, insieme, al mondo: "La pace si può fare, qui, adesso, subito".

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È iniziata una rivoluzione contro la guerra. Ne fanno parte ex presidenti di grandi Paesi e ragazzi liberi e nuovi, generali che della guerra sanno tutto e bambini che vogliono liberarsi dall'incubo. È un fenomeno mondiale così allarmante, così irritante per la cultura tradizionale, che sul pacifismo viene scaricato un disprezzo che non tocca neppure ai terroristi. I media si preoccupano di descriverli di volta in volta come stupidi, teppisti o complici del nemico (qualunque nemico, di volta in volta). Si fa volentieri una gran confusione fra chi è pacifista "profondo" ovvero si dichiara, sempre e per sempre, estraneo a ogni forma di uso della armi, e chi dice "no adesso", "no a questa guerra e a queste armi". Uno è stupido (si ripete con baldanza la frase: "Vorrei vedere se gli toccassero la sorella"), l'altro in malafede "perché si oppone solo alle guerre americane". Prendiamo questa accusa, che viene sbandierata come il male perenne dell'antiamericanismo. Non vedono, coloro che la formulano, che viene dall'America la scoperta culturale - più o meno chiara ma molto diffusa fra le persone giovani del mondo - che la guerra è uno strumento crudele, inadatto, costoso e inutile, come amputare senza anestesia, quando non c'erano né anestesia né antibiotici?

Scrive Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera" del 16 marzo: "Coloro che sfileranno nella manifestazione "pacifista" (le virgolette sono dell'autore) di sabato 20 marzo chiedendo il ritiro del contingente italiano in Iraq hanno come nemico prioritario gli americani, non il terrorismo islamico... l'Europa e l'Italia che non vogliono una nuova Monaco hanno il dovere di non mescolarsi con loro".

Il riferimento a Monaco, nell'articolo di Panebianco, è mortificante, dal punto di vista della storia, ma anche del senso comune. Sarebbe come discutere di errori nella cura della tubercolosi in un mondo tormentato dallo Aids. L'errore di Monaco, in cui due capi di governo europei si sono mostrati arrendevoli con Mussolini e Hitler, era fondato sullo sguardo benevolo (questo è il cuore dell'errore) di cui quei tragici dittatori, già autori delle spaventose e non notate leggi razziali, godevano presso i loro colleghi d'Europa. Inoltre, a quel tempo, non c'erano Nazioni Unite, (la Società delle Nazioni, senza l'America, era già finita), non c'erano televisioni e comunicazione globale. La guerra, in quel mondo e a causa di una mostruosa disattenzione per il fenomeno nazista e fascista, alla fine è apparso il solo strumento disponibile. Invocare quei giorni e quei diplomatici in ghette, in un mondo che poteva solo cedere o uccidere, come immagine dell'avversione alla guerra di oggi (decine di milioni di oppositori, dagli Stati Uniti all'Europa) vuol dire vivere in un museo delle cere. Il richiamo ai soldati suona antico come la canzone "Tripoli bel suol d'amore" (1909), evoca una comunità nazionale che si realizza solo con la sfilata delle truppe che partono e poi delle salme e dei mutilati che tornano.

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Ma il cuore dell'equivoco lo tocca il ministro della Sicurezza di Bush Tom Ridge con questa dichiarazione: "Noi diciamo a questi terroristi: sarete voi a morire". È una frase che definisce il mondo in cui dovremmo accettare di vivere (e che - per fortuna - non rappresenta affatto l'America ma solo i neo-conservatori che temporaneamente la governano). Non la civiltà contro il terrorismo. Ma guerra e terrorismo da una parte, e rifiuto della guerra e del terrorismo dall'altra. Infatti il successo del mostro odioso e sfuggente chiamato terrorismo è questo: tentare di fare uguale a se stesso chi lo vuole combattere. Per farlo cerca l'espediente di contrapporre morte alla morte. Volete sapere dove si vede la più grande e nobile risposta spontanea alla tragica sequenza di battute: "Vi porteremo la morte". E "No, sarete voi a morire"? Si vede in molte fotografie delle elezioni spagnole di domenica scorsa. Avete notato quanta gente - soprattutto giovane - si è presentata al seggio indossando magliette con la scritta "paz" pace? Sono matti, traditori dell'Occidente, complici degli assassini del treno, o persone culturalmente e istintivamente tanto più avanti delle spedizioni di Tripoli? Non saranno editorialisti di grandi quotidiani, ma hanno capito che morte più morte uguale morte. Nel loro Paese fortunato lo ha capito, evidentemente, il loro re, che ha impedito il rinvio delle elezioni. E lo ha capito (e per questo ha vinto le elezioni) chi adesso lo governa. Sono soli? Non tanto. Sentite che cosa manda a dire, dalla pagina degli editoriali del New York Times del 18 marzo, il politologo Jan Buruma, che ha la cattedra di Affari Internazionali al Bard College: "È vero che un vento spaventoso di violenza islamica attraversa il mondo. Ma non è una linea che divide noi da loro e che noi possiamo risolvere facendo la guerra a loro in nome dello scontro di civiltà di cui parla Samuel Huntington, e dei "valori universali" che ci raccomandano Bush e Blair. La civiltà non è divisa tra occidentali e islamici. Una linea di demarcazione violenta separa islamici da islamici, come separa cristiani da cristiani (qui, evidentemente, Jan Buruma ricorda le stragi di Waco e Oklahoma City, rispettivamente 80 e 168 vittime - tra cui decine di bambini - ad opera del terrorismo fondamentalista cristiano, ndr). Ma l'effetto della guerra - specialmente in un paese laico come l'Iraq - spinge indietro i moderati e incoraggia i fanatici a farsi avanti. I fanatici volevano la guerra e l'hanno ottenuta".

Forse quei mascalzoni dei pacifisti in realtà sono masse di persone che hanno capito che la guerra è una vittoria del terrorismo, e osano immaginare un mondo in cui fantasia, talento, sviluppo, collaborazione, solidarietà, molte religioni, molte culture, una azione continua di pace preventiva, possano isolare e svergognare la guerra, il terrorismo e le rispettive, simmetriche, culture. Forse, nei loro modi un po' improvvisati (perché nessuno ha passato loro i modelli di pace che cercano, perché ricevono solo insulti e accuse di complicità) forse sono, a loro modo, l'annuncio del fatto nuovo: la guerra è finita.

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