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Unità: La macchina di Piergiorgio e l’ambiguità della Chiesa

Nel «no» al distacco il rapporto a due facce con la tecnologia e l’evoluzionismo

28/12/2006
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l'Unità

L’ANALISIdi Pietro Greco

Da un lato il rifiuto di concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, perché ha volontariamente rifiutato di prolungare la connessione alla macchina che lo teneva in vita, in una maniera da lui considerata inaccettabile e priva di dignità. Dall'altra il rifiuto dell'«imperativo tecnologico», compreso quello delle macchine usate «compulsivamente per mantenere comunque in vita» una persona, come scrive Michelangelo Pelaéz, professore di Etica e di Antropologia presso l'università cattolica Campus Bio-medico di Roma. E, infine, la riaffermazione, quella del Papa, che la vita, dall'inizio fino al suo «tramonto naturale», è uno dei «principi non negoziabili» dei cattolici.

La vicenda Welby sembra avere portato alla luce una certa ambivalenza nell'atteggiamento rispetto alla tecnica in molti ambienti della Chiesa. Di rifiuto e, insieme, di soggezione. Di ripudio e, insieme, di accettazione. E infatti siamo davanti a una ambiguità. Anzi, come ha scritto ieri Gian Enrico Rusconi su «La Stampa», a un vero e proprio equivoco in cui incorrono «i teologi moralisti». Una ambiguità che non riguarda solo il rapporto con la tecnica. Ma è molto più profondo, perché riguarda il rapporto tra la «natura e una certa idea tradizionale di Dio». Le posizioni di alcuni uomini di religione intorno alla morte di Welby sono, per Rusconi, «l'ultimo segnale della necessità di riflettere radicalmente sul concetto tradizionale di natura che sta alla base delle dottrine religiose tradizionali».

Che ci sia ambivalenza rispetto alla tecnica non è una novità. E non è neppure contraddittorio. In fondo è la tecnologia stessa ad avere, come Giano, una doppia faccia. L'una amichevole, l'altra rischiosa. «Forza ecumenica» capace di attraversare le frontiere etiche, politiche, e religiose per imporsi come cultura omologa del pianeta. «Forza autonoma»: capace di procedere in maniera autopropulsiva, cioè indipendente dal controllo politico e per certi versi persino economico. «Forza riflessiva»: che, con l'avvento delle moderne biotecnologie rende l'uomo capace di manipolare se stesso, costringendolo a ridefinire concetti una volta considerati assoluti, come quelli di vita e di morte. Ma al fondo dell'atteggiamento di molti autorevoli religiosi c'è, come sostiene Rusconi, un'idea tradizionale di natura. Fondata, probabilmente, su due assunti. Uno che risale a Tommaso d'Aquino, secondo cui essa è completamente aperta al piano provvidenziale di Dio che accompagna ciascun essere verso il suo fine. E verso la sua fine. L'altro assunto è che le nuove tecnologie hanno superato il limite che separa l'ambito naturale da quello tecnico. Un limite che consentiva all'uomo di percepire «l'incanto del creato», come luogo in cui vale la potenza divina e «di fronte al quale l'uomo deve manifestare rispetto e ascolto riverente». Va da sé che questi due assunti si fondano sull'idea che natura e tecnica sono due dimensioni assolute e distinte. Che l'uomo, osando sostituirsi a Dio, non deve ibridare.

Qual è, invece, la nuova visione della natura con cui tutte le religioni tradizionali devono fare i conti, se vogliono, come invita a fare Rusconi, «ricostruire i criteri della moralità» a partire dalle nuove conoscenze scientifiche? È la visione «coevolutiva». Natura, uomo e tecnica non sono affatto dimensioni assolute e distinte. Ma l'uomo e la tecnica sono parte della natura. E insieme si modificano nel tempo. Insieme incessantemente coevolvono. In questa prospettiva coevolutiva si modificano concetti fondanti, come quelli di vita e di morte, che un tempo sembravano certi e immutabili. Oggi, per esempio, abbiamo un'idea di morte necessariamente diversa da quella che si poteva avere al tempo di Tommaso. La consideriamo più un processo che un evento. Distinguiamo, anche per legge, la morte del cervello dalla morte del resto del corpo. Perché, grazie alla scienza e alla tecnica, questa distinzione ha acquisito un senso compiuto. Ci sono, inoltre, tecnologie che consentono di diluire così tanto nel tempo il processo di morte, da renderla non più riconoscibile e non più dignitosa. L'evoluzione del concetto di morte determinata sia dalle tecnologie che consentono di accertarla sia da quelle che consentono di spostarla nel tempo, ci impone di ricostruire «criteri di moralità della morte» diversi da quelli accreditati ai tempi dell'Aquinate. Ci impone, con grande impellenza, di considerare la dimensione di «dignità della morte» che ai tempi di Tommaso sarebbe apparsa incomprensibile.

Certo, l'idea di coevoluzione del rapporto tra natura, uomo e tecnica e l'idea di evoluzione dei criteri di moralità impongono uno sforzo non banale a chi - come le religioni tradizionali - si dice portatore di valori assoluti. Ma è uno sforzo di onestà intellettuale possibile, perchè al fondo c'è la «pietas» per l'uomo (e per la natura).