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Unità: La scuola deve curare le paure dei ragazzi»

Lo scrittore Daniel Pennac: i tagli all’istruzione? Si rischia di pagare un prezzo altissimo

12/10/2008
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l'Unità

di Francesca Ortalli / Cagliari

«È UN LIBRO sul dolore di non capire. Ho rifiutato di scrivere sull’istituzione scolastica perché si può dire di tutto e quando si vuole». Parola di Daniel Pennac, autore di «Diario di scuola» (Feltrinelli) ospite a Cagliari della tre giorni di «Bestival», festival lettera-
rio per ragazzi messo su da «Tutte Storie». Creatore della sconquassata e divertente saga familiare del «capro espiatorio» di professione Benjamin Malaussène, Pennac è anche insegnante. E sul presente e futuro «dell’istituzione scolastica», che ha il compito delicatissimo di formare gli adulti di domani, ha le idee molto chiare. Necessarie per affrontare una vita tra banchi e alunni, dove è la pratica quotidiana a diventare maestra.
Nel suo libro ha definito la scuola come un «club molto esclusivo» dove «i somari» si vietano l’accesso da soli, aiutati, a volte, dai professori. Come dovrebbe essere la scuola ideale?
«È quella dove non ci sono somari. E perché non ci siano occorre che i professori riconoscano in maniera molta profonda la natura dei timori degli studenti. È questa la prima cosa da fare, perché con la paura non si può imparare nulla. Dovrebbe, quindi, guarire i bambini e gli adolescenti dalle loro insicurezze. La loro natura è complicata, molto difficile da capire, e, a volte, può generare una quantità di inibizioni. Penso però, che il mio ruolo d’insegnante non fosse quello di andarne a cercare l’origine, ma piuttosto di guarire le conseguenze attraverso la passione per quello che insegno. Se si risolve il problema in una materia, è già un inizio, uno stimolo che aiuta a diventare più bravo anche nelle altre. Diventando così una terapia».
In Italia il 30 ottobre si scenderà in piazza contro una riforma scolastica che prevede tra le altre cose, il ritorno maestro unico e al voto in condotta, tagli ai posti di lavoro e grembiule per tutti. Come vede una scuola così?
«Non conosco le ragioni che hanno portato a restaurare la figura del maestro unico e i tagli degli insegnanti. Ma se le ragioni sono economiche è un calcolo veramente pessimo. Più si risparmia sulla scuola più si ha la possibilità a medio termine di pagare molto cari i guasti sociali che questo risparmio ha portato. Bisogna spendere moltissimo per la scuola perché è un investimento prudente, riguarda il nostro futuro».
Qual è può essere il ruolo dell’insegnante nella scuola contemporanea?
«Ho voluto approfondire il mio ruolo di professore di letteratura legandolo strettamente a quello umano. Come professore, infatti ho semplicemente il compito di preparare gli alunni al diploma. Come uomo, invece, ho il ruolo di introdurre i ragazzi alla letteratura, farli immergere nei libri per farli diventare lettori a lungo termine. Non si tratta solo di far recitare ai bambini delle poesia a memoria, ma piuttosto di predisporsi ad un accompagnamento mentale. Che investe non tanto l’ordine del sapere ma quello dell’essere, del come si vuole diventare. Per me il ruolo dell’insegnante dovrebbe essere questo».
Lei ha parlato di «un’apartheid scolastico» che bolla sin dall’inizio bambini e adolescenti delle periferie. Si può intervenire su questo?
«Succede perché a Parigi, come in altre metropoli, gli affitti sono cari. Le persone povere, insieme all’ultima generazione di immigrati, sono relegate nelle periferie, dove non c’è lavoro, cinema, biblioteche o teatri. Eppure ci sono i licei. Ma spesso ci sono solo quelli, circondati dal niente. È questo quello che io chiamo apartheid culturale. Non molto tempo fa sono stato in una di queste scuole, in una classe di bambini molto abbandonati. Ho letto dei libri, ho fatto conoscere alcuni autori. Alla fine mi hanno chiesto: “Ma lei ritornerà?”. Ho risposto: “Sì”. Ma nel frattempo ho chiesto loro di preparare uno spettacolo di teatro. Così ritornerò nel mese di giugno per vedere la rappresentazione. L’anno prossimo, quando saranno un po’ più grandi, si farà qualcos’altro. Ma l’importante è seguirli, non farli sentire soli».
In Italia ci sono stati frequenti episodi di razzismo. Dove passa la via per l’integrazione?
«L’integrazione passa per delle leggi sociali di commistione immobiliare. Significa che bisogna assolutamente mescolare le persone tra di loro, farle vivere insieme. Perché ciò che crea l’esclusione, è il fantasma. E di quelli che si ha paura. Se io infatti non vedo mai, nel mio stesso quartiere o nel mio palazzo, una persona diversa da me, non saprò mai come è realmente. Ma anzi, inizio ad immaginare dei fantasmi. Così come quando un ragazzino non ha la possibilità di avere un compagno differente da lui, sia per status sociale che per colore della pelle. Solo mescolando le persone insieme, i fantasmi spariscono. Così è successo a Belville, il quartiere dove vivo io e Malausséne».