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Unità: Maturità, primi giorni di prove orali. «Il complesso di Edipo praticamente sarebbe...»

Dalla «poetica» di Gramsci al moderno «quant’altro»

29/06/2008
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l'Unità

di Marina Boscaino/ Roma

«IL COMPLESSO di Edipo praticamente sarebbe...». Praticamente? Opportunamente, non c’è nulla di meno pratico del complesso di Edipo. Eppure il confine tra pratico e teorico nei vezzi e vizi linguistici dei nostri studenti è qualcosa di sfumato, tanto da
non essere quasi più percettibile. O meglio: le parole stanno progressivamente perdendo di senso in uso ed abuso di intercalari reiterati. E non parlo del "bella!", delle tendenze celebrate dall’ epopea mocciana o dalle improbabili saghe televisive dedicate alla scuola, del gergo di Muccino parodiato da Fiorello.
Gli orali dell’Esame di Stato offrono un punto di osservazione interessante. Immaginate loro: la propria scuola, le aule - quelle di sempre - nelle quali hanno trascorso gli ultimi anni. La disposizione dei banchi, però, cambia: a quella tradizionale si è sostituito, sul fondo, un tavolo lungo in cui - ora accoglienti, ora ringhianti, ora indifferenti - sono schierati i 6 membri della commissione (3 interni e 3 esterni) e il presidente. La tentazione è immediata: sedersi davanti alle facce amiche. Anche i più temerari e strafottenti sembrano avere un momento di esitazione. Treccine rasta o camicetta tradizionale, un po’ di pancia scoperta è irrinunciabile per le ragazze: ormai è la democratica rappresentazione di un’adolescenza che - nonostante qualche chilo di troppo - della maglietta corta ha fatto una divisa. Più cauti i ragazzi: qualche bermuda e coraggiosissime (perché pesantissime) scarpe da ginnastica rigorosamente slacciate, sfidando il caldo insopportabile che si accanisce su di noi puntualmente in questo inizio d’estate.
Il "praticamente", come si diceva, è un vero e proprio must. Ancora più interessante è il fatto che "in pratica", "praticamente" vengano puntualmente seguiti dal condizionale, come nell’incauto esempio di Edipo. "In pratica una parabola sarebbe": l’assertività scientifica viene stemperata in rivoli di funambolico e inconsapevole relativismo, che dovrebbero indurre a una riflessione - oltre che sui vezzi linguistici - sul senso di ciò che insegniamo e di come lo insegniamo ai nostri ragazzi.
Il più gettonato e il più versatile degli avverbi è accompagnato dagli immarcescibili "appunto" e "infatti", che scandiscono implacabili affermazioni stentate, così come esposizioni più fluide. La pretesa di scientificità viene espressa da un "tra virgolette", seguito non già da una citazione rigorosa, ma da una interpretazione generalmente approssimativa, accompagnata magari anche dal doppio gesto di indice e medio delle due mani.
Dalla "poetica" di Gramsci - notoriamente famoso per i suoi romanzi e poesie - al De bello gallico di Cicerone (con probabile rotolamento nella tomba dei due autori latini chiamati in causa) ho ascoltato di tutto: l’impulso entusiasta e patriottico ("i sani ideali della grande Roma"), il piglio ermeneutico ("un villanello che sarebbe un contadino"), la contaminazione logico-linguistica ("i personaggi della vita bassa non venivano accettati"), la lettura sociologico-previdenziale ("il sapiens di Seneca afferma che bisogna andare in pensione presto").
Tra le mode linguistiche convogliate dai media e dal mondo della politica l’odioso "e quant’altro" è certamente al primo posto: ma ai miei alunni basta incrociare il mio sguardo saettante per smettere di dirlo.
Lacrime, risate incontenibili, disorientamento imprevisto, grinta inimmaginabile, curiose ricadute nell’ipercinesi infantile, sollievo, abbracci: sfilano davanti a noi - che li abbiamo seguiti per tre anni - insieme a una parte di quel tempo della nostra vita. I messaggi angosciati dei giorni immediatamente precedenti sembrano essere un ricordo. Vanno via, verso le vacanze, verso l’università, verso la loro vita, con i loro "appunto". E - nonostante le convinzioni dei tre anni trascorsi da insegnanti democratici e consapevoli, nonostante l’autorevolezza, la cura, la relazione educativa - non sapremo mai fino in fondo cosa hanno veramente pensato di noi.
Ogni volta, però, questo esame aumenta - soprattutto in chi non ha granitiche certezze cui affidarsi - il senso di un divario tra lo sforzo prodotto e i risultati ottenuti. E la necessità di un ripensamento sulla propria funzione e sull’utilizzo degli strumenti che abbiamo a disposizione.
"Competenze culturali" (quelle che dovremmo fornire ai nostri ragazzi) è un’etichetta troppo audace e ottimistica per una scuola che ha invece urgenza di ridiscutere i propri paradigmi.
Ostinarsi a rimuovere l’esistenza di Maria De Filippi, della logica del tronista o del fatto che Mara Carfagna sia ministro non è quindi il sistema migliore per individuare direzione e percorso verso cui la scuola deve indirizzarsi al fine di sollecitare suggestioni, curiosità e modelli alternativi. Per fare in modo che i nostri ragazzi desiderino elaborare e non ripetere. Vogliano capire e non imparare a memoria.
Per far sì che, a partire dal modo in cui parlano e scrivono, la loro sia una ricerca di senso, appunto.
Praticamente.