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Unità: Non si blocchi proprio ora l’opera di rilancio della scuola

Marina Boscaino

23/02/2007
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l'Unità

In quasi tutte le sue interviste pre e post elettorali Romano Prodi, parlando di scuola, non ha mai dimenticato di sottolineare la sua intenzione di potenziare l’istruzione tecnico-professionale; dal periodo del boom economico in poi, questo settore dell’istruzione secondaria, infatti, ha contribuito in maniera rilevante a garantire ai due terzi della popolazione scolastica l’acquisizione sia di elementi professionalizzanti sia di elementi culturali per la piena cittadinanza. L’esperienza dell’istruzione tecnico professionale ha rappresentato per molti aspetti e per lunghi anni una sorta di qualificata avanguardia dell’istruzione superiore, individuando in maniera efficace utenza e vocazioni diverse da quelle dei licei, seppure altrettanto significative dal punto di vista socio-culturale. I provvedimenti relativi alla scuola contenuti nel pacchetto Bersani hanno rappresentato dunque una positiva conferma di una volontà di porre l’istruzione tecnico professionale in primo piano, soprattutto attraverso la fondamentale riattribuzione allo Stato delle competenze relative a quell’area, là dove il precedente governo aveva stabilito che l’istruzione tecnico professionale fosse di competenza delle regioni (con il conseguente crollo di iscrizioni a vantaggio dei licei).

È evidente che il provvedimento non potrà ignorare - nella sua attuazione - la necessità di rendere quelle scuole funzionali a ciò di cui il Paese ha bisogno: istituti di qualificata istruzione scientifica e tecnica. E tale processo di revisione non può non partire da un serio lavoro sulla costruzione di un biennio unitario per tutta la scuola superiore che - definendo i traguardi comuni a tutti i ragazzi di 16 anni - transiti attraverso la contaminazione culturale dei due percorsi tradizionali del nostro sistema di istruzione secondaria superiore - tecnico professionale, appunto, e licei - e produca una sintesi delle migliori reciproche esperienze conoscitive, definendo al suo interno percorsi comuni a tutti e percorsi differenziati a seconda dell’indirizzo preso. Sarebbe un peccato davvero se si perdesse l’occasione di procedere in maniera ferma in questa direzione. Ciò potrebbe significare - di fatto - sclerotizzare nel nostro sistema l’immobilismo più che decennale di un ramo liceale e teorico e di un altro pragmatico e pratico, in una anacronistica separatezza istituzionalizzata dei percorsi.

Con una lettera al Cidi il vice ministro Mariangela Bastico chiarisce che i centri di formazione professionale regionali (che il decreto Bersani inserisce nei poli tecnologici) riguardano il post diploma; in questo modo il ministero ha utilmente eliminato un’ambiguità del testo di legge che, se si concretizzasse, configurerebbe una divaricazione legittimata tra sistema scolastico e non scolastico e avallerebbe l’assolvimento dell’obbligo di istruzione fuori dalla scuola. Rendendo meno credibile la possibilità di un reale investimento socio-culturale e di un rilancio anche in termini di crescita economica dell’istruzione tecnico professionale: crescita impossibile, senza una reale formazione culturale per la piena cittadinanza che solo la scuola pubblica - laica e pluralista - può fornire.

Su questo fronte notizie confortanti arrivano dalla Toscana e dalla Puglia, che - a quanto si dice - dovrebbero essere le prime due regioni a non chiedere l’accreditamento del ministero per gli enti che avrebbero dovuto (secondo la Finanziaria) collaborare con la scuola per l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Obbligo solo nella scuola, senza se e senza ma. Complimenti per il coraggio, dal momento che sono note le resistenze di una parte della maggioranza a configurare l’assolvimento dell’obbligo scolastico senza partecipazione esterna.

Infine l’ultimo punto, quello che ha suscitato maggiori polemiche. Il ministro Fioroni ha affermato: «Credo che i soldi privati che vanno alle scuole pubbliche siano qualcosa di aggiunto, non di sottratto» e che «se ci sono disponibilità ed incentivi da parte dei privati per la scuola pubblica, ciò non vada rifiutato». Attribuire alle scuole il regime delle fondazioni per aprire la strada alla possibilità di accogliere donazioni può dare il via a un percorso che rischia di creare situazioni negative da vari punti di vista. La definitiva apertura del consiglio di istituto e - in esso - della giunta esecutiva a soggetti esterni e privati individuerebbe pericolosi varchi verso direzioni “marketing oriented”, che negano la vocazione principale della scuola pubblica; tre sembrano i pericoli più incombenti: da una parte l’apertura a una logica di mercato di stampo neoliberista che - per far sopravvivere o vivere meglio le scuole con consigli di amministrazione misti - potrebbe affidarsi a un sistema di concorrenza sul mercato, legato alla capacità delle singole scuole di ottenere maggiori capitali; un’ottica e una logica che con la scuola pubblica - e con la scuola tout court, direi - non hanno davvero nulla a che fare. Dall’altra l’insidia al principio costituzionale della libertà di insegnamento, sul quale la scuola pubblica italiana si basa, e che potrebbe essere messo in discussione assegnando a soggetti privati una funzione nel consiglio di istituto. Infine la non remota possibilità che vengano ad alterarsi rapporti e a mutarsi equilibri, con grave danno della situazione interna specialmente sotto il punto di vista psicologico-relazionale: rispetto a dinamiche ed equilibri di un sistema complesso quale la scuola è, solo chi ci lavora quotidianamente è in grado di intervenire con competenza ed efficacia. Questa parte del provvedimento, che certamente non è stata in alcun modo sollecitato dalla scuola italiana (a proposito di ascolto degli insegnanti... ), insiste su una lettura dell’autonomia scolastica di stampo eminentemente economico e finanziario; tralasciandone l’interpretazione più autentica e fedele: quella di autonomia di ricerca e sperimentazione, l’unica in grado di far crescere e sviluppare il territorio. E rischia di amplificare il divario tra le scuole, non solo su base regionale, ma persino su base territoriale all’interno della stessa regione e di allontanare pericolosamente la scuola pubblica dal suo mandato costituzionale di garante di pari opportunità per tutti i cittadini