Unità: Non solo tema Prof e studenti e il rebus dell’italiano
Si chiama «Scritti sui banchi» l’indagine sul livello espressivo degli studenti italiani di Serianni & Benedetti in libreria per Carocci. Già, ma questo livello come si misura? C’era una volta, e c’è ancora, il «tema»...
TOBIA ZEVI
Lo scrittore americano Frank McCourt (Le ceneri di Angela), recentemente scomparso, ricordava così il suo insegnamento a scuola: «Avrebbero dovuto avvertirmi. Ehi, Mac, la tua vita sarà tutta così: giornate e nottate intere a leggere storie, poesie, diari, biglietti d’addio di aspiranti suicidi, invettive, giustificazioni, commedie, temi, perfino romanzi, tutti frutto del lavoro di migliaia - e dico migliaia - di adolescenti». Montagne di carta accumulate sulla scrivania del professore, ore di fatica e mani sudate per studenti di tutte le età. Ecco a voi il tema d’italiano, oggetto del bel saggio di Luca Serianni e Giuseppe Benedetti Scritti sui banchi (Carocci, pp. 215, euro 19,50). Denso di esempi concreti, il libro descrive vizi e virtù linguistiche degli studenti, ma anche le difficoltà degli insegnanti, pratiche e teoriche, a definire criteri equi per correggere e valutare.
Il tema, cuore del percorso formativo e simbolo di una cultura nazionale prevalentemente umanistica, è da sempre tacciato di due peccati: artificiosità e arbitrarietà. Una prova scritta che rimane confinata nella pratica scolastica senza alcuna comunicazione con la vita reale: «la cultura scolastica (…) formava un sistema coerente, artificiato e indiscusso. (…) lo sbaglio era il centro stesso del sistema (…) si finiva col credere che esistesse una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale). In generale non si era nutriti di cose, ma di parole sulle cose» (Meneghello). E in più un’esibizione di potere da parte dell’insegnante. La celebre Lettera a una professoressa di don Milani lo riteneva classista, addirittura razzista, come la stessa nozione di voto. Una denuncia democratica e pedagogica alla base di non poche esagerazioni («non esistono gli errori»).
E oggi? Le indagini internazionali non sembrano incoraggianti: i ragazzi italiani scrivono peggio dei loro coetanei europei. Non si giudicano gli studenti per la conoscenza di quanto appreso a scuola, ma per le «competenze» esportabili nell’orizzonte extrascolastico. In effetti, scorrendo le varie performance, colpiscono non tanto gli strafalcioni, ortografici o morfo-sintattici, ma la frequente incapacità di organizzare logicamente un testo imperniato su connettivi e coesivi linguistici. Con differenze abissali tra Nord e Sud e tra licei e istituti tecnici.
CORREGGIAMO GLI ERRORI
In prima linea ci sono i professori, sviliti frequentemente da una concezione burocratica e aziendalista dell’insegnamento: a loro spetta misurarsi con la realtà individuale di ogni studente coi suoi specifici problemi. Serianni, storico della lingua, nota che in alcune situazioni il collasso delle strutture logiche e linguistiche non si può affrontare con la semplice correzione degli errori. È il caso per esempio degli studenti stranieri: prima di dedicarsi al tema occorrerebbero specifici esercizi di natura più tecnica. Gli insegnanti, quelli bravi, vanno in questa direzione: compiti che sviluppano specifiche competenze grammaticali o stilistiche e una valutazione - il più possibile chiara ma sempre soggettiva! - che non si riduce al voto, ma che cerca un dialogo con il ragazzo anche attraverso il confronto con le prove precedenti (senza sconfinare nel ridicolo «Devi fare meglio, Giulia»). Ma non mancano quelli pigri, che segnalano gli errori in fretta e furia, non li commentano, spesso ne dimenticano parecchi (per esempio il costante deficit di punteggiatura) o addirittura ne aggiungono di propri.
In generale sembra essersi affermata l’idea che un titolo come «La vita… dietro questa parola si celano tante emozioni e tanti aspetti del proprio carattere. Parla di tutto ciò che significa per te questa parola» induca alla prolissità, alla genericità e ai luoghi comuni più corrivi, e che dunque sia preferibile elaborare tracce più puntuali. Quello a cui invece i docenti non sembrano rinunciare è l’italiano asettico e irreale della scuola, ricco di «il quale», «egli» invece di «lui», e in cui le ripetizioni sono un delitto. Dove non ci si «arrabbia», ci si «inquieta», una sorellina non può essere «in gamba» (ma «sveglia», sì!), un giocatore non «si mette» in attacco, ma «ricopre il ruolo di attaccante», e in cui non «si va» ma ci «si reca». Gli insegnanti affibbiano raramente voti sotto 4 e sopra 8, penalizzando spesso gli studenti più brillanti e mostrando una tendenza livellatrice. In una società in cui si predica continuamente il merito, bisogna stare attenti. A non fare come descritto ancora da McCourt: tre punti per la presenza. Due o tre punti in più per la bella calligrafia. Altri due per la struttura, guarda che rientri! Diamogli due punti per il padre morto nel canale. Perché non gli diamo altri punti? In fondo è un bravo ragazzo, e poi suo fratello Stan l’hanno mandato in Vietnam…