Unità: Non sulla testa dei precari
Intorno al dibattito sulla legge 30 si va delineando un’operazione di vero e proprio «sviamento» politico-metodologico. Un modo, forse, per mettere già le mani avanti e condizionare tanto l'azione della Cgil quanto della sinistra dell’Unione
Gloria Buffo
Alessandro Genovesi
Intorno al dibattito sulla legge 30 si va delineando un’operazione di vero e proprio «sviamento» politico-metodologico. Un modo, forse, per mettere già le mani avanti e condizionare tanto l'azione della Cgil quanto della sinistra dell’Unione (entrambe decisive per la vittoria del 9-10 aprile).
In questo paese ci sono più di 4 milioni mezzi di precari i cui redditi variano da un meno 15% rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato (per i contratti a termine e in somministrazione) a un meno 20% per i nuovi contratti di apprendistato e di inserimento, fino a un meno 40% per i co.co.co/co.co.pro (con una media di 600 euro mensili). Un giovane su due è precario, privato cioè di ogni tutela economica e normativa, senza diritti sindacali e senza nessuna possibilità di mettere a frutto i propri studi. La precarietà è assunta così a principale problema del nostro paese: chiama in causa la tenuta sociale e democratica, oltre che economica, della nostra società. La legge 30 e il dlgs. 368/01 (quello che ha liberalizzato i contratti a termine) ne sono i principali (ma non unici) responsabili.
Occorre allora cambiare passo: prima ancora di dire cosa si vuole fare è necessaria una «rivoluzione culturale», che rimetta il lavoro e la sua funzione di emancipazione e di libertà al centro della politica e della vita sociale. Facendo della buona, piena e stabile occupazione l'obiettivo ambizioso di chi crede nel futuro di questo paese.
Se questo assunto è condiviso - se è veramente e fino in fondo condiviso - è necessario ribadire con coraggio quello che si vuole fare, discutendo delle proposte in campo per dare stabilità occupazionale e diritti e quindi - solo dopo, coerentemente e «logicamente» - tirare una riga e vedere quanto delle passate norme (siano esse la legge 30, il 368, ma anche il Pacchetto Treu) resta.
Il contratto a tempo indeterminato deve essere la regola e non l'eccezione?
Bene, allora le tipologie contrattuali atipiche vanno ridotte a 3-4 (a scopo formativo, a termine solo per specifiche esigenze e per modiche quantità stabilite dai Ccnl, per i soggetti svantaggiati a cui va garantita particolare attenzione) e devono costare di più (in termini di salario e di contributi previdenziali) sia per renderne sconveniente il ricorso truffaldino (solo chi ha bisogno di vera flessibilità sarà disposto a pagarla di più), sia per assicurare un efficace sistema di tutela nei periodi di non lavoro (da qui anche i maggiori versamenti previdenziali).
Occorre limitare l’uso di tipologie a forte base di autonomia (come dovrebbero essere gli attuali co.co.pro), separandole però dal vero lavoro autonomo, fatto da chi rischia in prima persona e da chi beneficia di tutti i guadagni? Allora occorre riformulare l'art. 2094 del codice civile e riportare ad unità il mondo del lavoro, costruendo due grandi macro categorie: quella del lavoro economicamente dipendente e quella del lavoro economicamente autonomo.
Occorre ridare al part-time quella fisionomia di contratto che concilia tempi di vita e tempi di lavoro, senza abusi da parte delle aziende? Allora occorre riformare le norme su clausole elastiche, flessibili, su lavoro supplementare e sul diritto al consenso, che sono state stravolte.
Vogliamo fare del contratto di apprendistato la chiave per permettere ai giovani di imparare un mestiere, valorizzandone le competenze secondo quanto previsto dalla politica di Lisbona? Allora, a fronte di grandi benefici previdenziali, le imprese devono fare veramente formazione, scommettendo su quella esterna e trasversale. E, in più, non è possibile che il contratto di apprendistato duri 6 anni (in Europa in 6 anni si diventa medici, non operai tornitori) e il lavoratore non può essere sottoinquadrato di due livelli.
Vogliamo ristabilire una responsabilità di chi beneficia veramente della fatica e delle intelligenze dei lavoratori? Allora non sono possibili forme permanenti di rottura della catena di comando (somministrazione a tempo indeterminato) e non è possibile una deresponsabilizzazione piena dell'impresa che (dopo l'abrogazione della legge 1369/60 sui falsi appalti e contro il caporalato) ceda rami d’azienda o faccia appalti in esclusiva, smontandosi non per migliorare la sua efficienza, ma solo per risparmiare su lavoro e diritti. Se la codatorialità e l'ampliamento delle responsabilità in solido tra imprese è la strada tracciata, occorrono allora nuove norme, la riscrittura dell'art. 2112 del Codice Civile, la cancellazione del lavoro a chiamata.
Riteniamo essenziale una funzione del pubblico nel governo dell'incontro domanda-offerta di lavoro, con un rafforzamento dei centri per l'impiego e con una corretta collaborazione con i privati, in termini di servizi speciali e particolari settori di intervento? Allora occorre ridurre la giungla dei soggetti autorizzati all'intermediazione e comunque occorre dare loro una sistematizzazione.
Riteniamo che i soggetti svantaggiati (disoccupati di lunga durata, lavoratori in mobilità, ecc) e i lavoratori disabili debbano essere aiutati di più e non di meno, e che non è possibile collocarli sul mercato attraverso la semplice riduzione dei loro salari netti e dei loro diritti? Dovremmo allora scommettere su una loro piena integrazione e ingresso alla pari con i colleghi «normali».
Riteniamo che per combattere il lavoro nero la strada non sia quella di ridurre semplicemente i costi, ma che ci voglia una strategia complessa fatta di premialità e rigore? Allora occorrerà rompere i ricatti a cui molti di questi lavoratori sono sottoposti (riconoscendo il diritto al permesso di soggiorno per l'immigrato che denuncia il datore irregolare), rendere più efficaci le procedure normative (per esempio con l'obbligo di comunicare il giorno prima che inizi la prestazione, l'assunzione di un lavoratore), rimettere al centro la funzione repressive dei servizi ispettivi, dotandoli di strumenti e risorse atte al loro compito, contro ogni tentativo di farne dei consulenti delle imprese. Riteniamo decisivo il ruolo della rappresentanza sindacale e dalla sua funzione contrattuale? Allora forme di snaturamento di queste, dalla certificazione dei contratti di lavoro fino allo stravolgimento degli enti bilaterali oltre i compiti fissati nei Ccnl, vanno respinte.
Riteniamo infine necessario rendere veloce ed efficace sia la macchina giudiziaria che le sedi di riduzione del contenzioso in materia di lavoro? Occorre allora scommettere su un rafforzamento delle sedi conciliative sindacali, su una riforma del processo del lavoro e contrastare forme antiquate di conciliazione monocratica, di certificazione e di impossibilità di rivolgersi al giudice per la tutela dei diritti soggettivi.
Se si vuole fare tutto questo - e il programma dell’Unione questo dice, in molti suoi punti, di voler fare, aggiungendo anche, giustamente, una profonda riforma ed estensione degli ammortizzatori sociali - allora il problema non si pone. Se non per chi vuole strumentalizzare il dibattito in corso. Tutte queste nuove norme superano, cancellano, abrogano per antitesi quasi tutti gli articoli della legge 30 e del dlgs.276, stravolgono il dlgs.368/01 e anche altre norme (molte della Moratti e della Bossi-Fini) e soprattutto danno al lavoro quella centralità che si merita.
Perché è solo con «un pieno» che si sostituisce un altro «pieno». E per noi il «nuovo pieno» è la condizione essenziale per rimettere in moto il paese e scommettere su quella qualità (che è anche qualità del lavoro) che a parole tutti invocano.