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Unità-Parola mia: siamo all'università dell'ignoranza"

"Parola mia: siamo all'università dell'ignoranza" Il prof Beccaria, già star tv con Rispoli, attacca la riforma Moratti: "La ricerca viene umiliata dalla burocrazia" Roberto Carnero ...

04/10/2004
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l'Unità

"Parola mia: siamo all'università dell'ignoranza"

Il prof Beccaria, già star tv con Rispoli, attacca la riforma Moratti: "La ricerca viene umiliata dalla burocrazia"
Roberto Carnero

TORINO "So già che qualcuno mi taccerà di essere un "conservatore di sinistra", ma l'accusa non mi spaventa. Sono di sinistra e mi rivolgo alla classe politica di sinistra, quella che, quando sarà finito il governo Berlusconi, mi auguro torni a governare. E a gestire, in particolare, la scuola, l'università, l'istruzione. Per questo per me è molto importante potere rivolgermi ai lettori dell'Unità". Apre così questo nostro incontro Gian Luigi Beccaria. Molti lo conoscono come "il professore" di Parola mia, la fortunata trasmissione che, condotta da Luciano Rispoli a metà degli anni Ottanta, ha rappresentato un importante esempio di divulgazione culturale (andava in onda su Rai1 prima del tg delle 20, la fascia ora occupata dai quiz milionari: triste segno dei tempi...).
Ma Beccaria, prima di essere star televisiva, insegna da quarant'anni all'università, dove è ordinario di Storia della Lingua italiana presso l'ateneo torinese. Per Garzanti ha curato un "pamphlet collettivo", che raccoglie le voci di alcuni docenti universitari molto critici nei confronti della riforma del cosiddetto "tre più due", quella che ha sostituito le vecchie lauree, per lo più quadriennali o quinquennali, in un triennio di base e in un biennio specialistico. Varata dal ministro Berlinguer, ma ora sostanzialmente peggiorata dalla Moratti, è accusata da molti di spezzettare i contenuti disciplinari, dequalificando in maniera preoccupante la preparazione. Al volume curato da Beccaria, dal titolo Tre più due uguale zero (pagine 192, euro 13,50), hanno partecipato diversi professori di discipline umanistiche, tra i quali Claudio Magris, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Segre, Raffaele Simone.
Professor Beccaria, come possiamo sintetizzare il quadro che emerge dall'insieme degli interventi contenuti nel volume?
C'è una straordinaria convergenza di punti di vista tra i diversi autori, che pure hanno scritto senza essersi consultati prima tra loro. Segno, questo, che alcune cose evidentemente non vanno proprio. Il discorso è centrato sulle discipline umanistiche: letteratura, filologia, storia, filosofia. Materie sempre più emarginate dal sistema dell'istruzione italiana. Chi negli anni scorsi andava all'estero sa che la nostra scuola era tra le migliori del mondo. Forniva un'ottima preparazione, soprattutto nelle materie umanistiche. Ora, invece, con le varie riforme, dalla scuola si è cancellato lo studio del passato, appiattendo tutto sulla contemporaneità, e all'università si sono ridotti drasticamente i contenuti, dequalificando il livello degli studi. Questa rimozione del passato mi sembra una scelta folle, in un Paese, come l'Italia, dove è concentrata più della metà del patrimonio storico e artistico mondiale.
Quali sono le pecche del "tre più due"?
Noi professori universitari siamo stati tenuti fuori dalla formulazione della riforma. Ci è stata calata dall'alto, da parte dei pedagogisti, che hanno predicato la distruzione delle competenze, il didattichese, l'idea che un insegnante, ad esempio, debba imparare più un metodo di insegnamento che delle cose da insegnare. Si è voluto, insomma, promuovere la didattica del nulla, l'insegnamento dell'ignoranza.
In vari contributi si punta il dito contro la "concezione aziendale" dell'università. Di cosa si tratta?
Beh, in Italia ultimamente tutto è diventato azienda: gli ospedali, le scuole, le università. E anche il linguaggio: gli studenti sono 'utenti', l'insegnamento 'offerta formativa', e via di questo passo. Gli atenei, essendo aziende, devono farsi concorrenza tra loro, per accaparrarsi gli iscritti, e quindi spendono una barca di soldi per pagarsi la pubblicità sui giornali, alla radio, alla tv: tutto denaro sottratto alla ricerca. In questa idea aziendale dell'università, le facoltà migliori sono considerate quelle con il minor numero di bocciati, il che evidentemente provoca una diminuzione di serietà nelle verifiche.
Lei e i suoi colleghi non nascondete che fu il ministro Berlinguer a iniziare la riforma...
Guardi, la maggior parte degli autori è gente che ha militato nel Pci, nei Ds, nella Cgil... Gente di sinistra, dunque, e che non rinnega affatto questa appartenenza politica. Ma tra compagni è anche d'obbligo la franchezza. Bisogna individuare gli errori e le storture, finché si è in tempo per correggerli. E insieme occorre denunciare quanto sta accadendo oggi. Vede, Berlinguer aveva chiara l'idea della centralità dell'istruzione pubblica. Con la Moratti il calcolo è diverso e chiarissimo: impoverire l'università pubblica, in modo che ciò vada a vantaggio dei centri d'eccellenza, ovvero degli atenei privati. Come accade già, ad esempio, negli Stati Uniti.
Con la riforma, com'è cambiata la sua vita di professore?
Sempre meno tempo per la ricerca, che ormai rimane quasi un miraggio, e sempre più burocrazia: commissioni, riunioni, incontri per la didattica. Siamo sempre meno ricercatori e sempre più 'ragionieri'. Prima insegnavamo corsi monografici di sessanta ore, in cui attraverso la trattazione di un argomento specifico, frutto di ricerche di prima mano, fornivamo un metodo. Ora in moduletti di trenta ore a carattere generale possiamo offrire conoscenze di livello liceale. E la vecchia tesi di laurea è stata sostituita da una risibile tesina, meno di quanto una volta si faceva per l'esame di maturità.
E gli studenti come sono cambiati?
Appaiono sempre più passivi e meno reattivi. Ma non è colpa loro. È colpa di una scuola che non è più luogo di discussione, dibattito, differenza, al limite anche critica e contestazione. Si insegna a non pensare e a bere quello che viene dato. Una soluzione commerciale di cui uno come Berlusconi non può che avvantaggiarsi: tutti buoni, zitti, pronti a credere a quanto trasmette la tv, ai facili slogan elettorali, e infine a votarlo.