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Unità-Professore, ma chi è mio figlio?

Professore, ma chi è mio figlio? Luigi Galella Di alcuni studenti conosco i genitori. Superficialmente. Nelle occasioni in cui ci incontriamo, nei pochi minuti dei colloqui, attraverso un fug...

07/11/2005
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l'Unità

Professore, ma chi è mio figlio?

Luigi Galella

Di alcuni studenti conosco i genitori. Superficialmente. Nelle occasioni in cui ci incontriamo, nei pochi minuti dei colloqui, attraverso un fuggevole, intenso contatto con le loro emozioni.
Sono le madri, soprattutto, ad esserci. Vengono a raccontarmi dei loro figli, ma anche ad ascoltare chi sono. Lo si legge dai loro sguardi interrogativi. Pur avendoli sempre in casa, infatti, è arrivato il momento in cui, per certi versi, non li riconoscono più. Forse a scuola parlano, si aprono. Si confidano. Si svelano.
Ascoltano ciò che fanno come se li guardassero, grazie a noi, attraverso il buco di una serratura. Sono curiose e ansiose. Vogliono vedere quell'oltre, ma anche inconsciamente, per timore, nascondersene la vista. I figli si sono fatti strani e stranieri. Non domandano né rispondono. Vanno a scuola ma controvoglia, studiano quando capita e il sabato sono in discoteca per tornare a casa il giorno dopo. E le madri si interrogano impotenti e chiedono, a noi insegnanti: che cosa accade?
Vedo Massimo in classe alzarsi e uscire per andare al bagno, dopo aver sollevato la mano. L'ho visto crescere e cambiare, anche fisicamente, in questi anni. Ora ha il corpo appesantito, nonostante la giovanissima età. Sul suo viso tondo e paffuto iniziano a marcarsi, sullo sfondo dell'infanzia, i tratti decisi dell'età adulta. Sulla sommità del capo gli si possono notare perfino i primi segni di precocissime calvizie. L'ultima volta che ho incontrato sua madre mi disse che in casa il figlio non parlava mai. In quel tacere, mi chiese apprensiva, che cosa celava? L'ansia per la sua sorte scolastica si mescolava alla preoccupazione per degli amici, che gli aveva proibito di frequentare, ma che lui continuava a vedere. Era l'ultimo colloquio dell'anno. Le spiegai che Massimo aveva avuto un rendimento pessimo in tutte le discipline e che purtroppo rischiava la bocciatura. Mi guardò terrorizzata. "Anche nelle sue materie? Com'è possibile?" Cercò orgogliosamente di trattenere le lacrime. Ricordò i nostri primi colloqui: le avevo dato dei suggerimenti, le ero parso comprensivo.
Capii che in lei si stava consumando il dramma di un doppio scacco. Quello di aver perso il controllo di suo figlio, e quello di aver creduto che gli insegnanti potessero aiutarla a riconquistarlo. Si sentiva abbandonata, tradita nelle sue aspettative. Credeva che la scuola avesse una funzione educativa, che potesse intervenire e sanare, lì dove si apriva una ferita, ma al dunque invece si limitava a certificare un giudizio, simile a una resa. Eppure, insistette, l'italiano e la storia Massimo li aveva studiati. Di questo, almeno, era stata testimone. Scossi il capo: "Non è così. Quando lo chiamo, si rifiuta di venire. E nelle rare volte che si dichiara preparato, sa poco o nulla. Quel poco che dice, peraltro, è in un italiano stentato, approssimativo. Non può essere sufficiente per una promozione".
Assunse un atteggiamento recriminatorio. Di colpo sembrò riappropriarsi della piena titolarità a parlare, come se fosse l'unica a detenere il diritto a esprimersi sul figlio. L'unica che potesse veramente sapere. Ma a quel punto, era chiaro, si riferiva a qualcosa di intimo, di profondo. A una conoscenza che solo lei possedeva. E attraverso la quale sentiva di poterlo assolvere, mentre noi lo condannavamo. Così, gli stranieri eravamo divenuti noi. I nemici. Infine scoppiò a piangere e si allontanò. Da allora non è mai più tornata. È passato del tempo. Massimo ha ripetuto il quarto e ora finalmente è all'ultimo anno. Oggi, mi ha fatto tenerezza vederlo muoversi nell'aula, enorme e un po' goffo, i jeans a vita bassa e le immancabili Nike ai piedi, con il passo cauto di chi si destreggia tra i banchi in uno spazio che non controlla appieno, e ho ripensato all'ultimo colloquio con sua madre. Agli occhi di lei, prima fiduciosi e poi quasi disperati. E poi colmi di rancore, di rabbia. Ansiosi, concitati, timorosi, protettivi. Credeva di trovare un interlocutore, forse un amico, che l'aiutasse a comprendere. E man mano che le emozioni montavano, però, sempre meno riusciva a capire. A vedere.
luigalel@tin.it