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Unità: Punisce il bullo, «galera» per l’insegnante

Chi sbaglia? Ma soprattutto: chi sbaglia di più?

09/06/2007
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l'Unità

Luigi Galella

Un dodicenne che si comporta da bullo verso un suo compagno, una insegnante solerte che gli infligge una pena esemplare, un magistrato che chiede la condanna a due mesi di carcere per la professoressa per «abuso di mezzi di correzione». Chi sbaglia? Ma soprattutto: chi sbaglia di più?
All’origine c’è il comportamento di un bulletto. Ma attenzione, si tratta di un bambino, e come tale è giusto che sia tutelato, anche lì dove commette un errore o un atto agli occhi di noi tutti «indegno». Quindi c’è l’intervento dell’insegnante.
La quale, ponendosi a difesa della dignità della prima e forse unica vera vittima, mescola il male e il bene, forse anche per congelare sul nascere un comportamento, del quale intravede la facile deriva. Lo fa in buona fede, ma non si rende conto che se vogliamo intervenire sul bullismo dobbiamo farlo con strumenti adeguati, alle persone e alle situazioni. Infine c’è l’intervento della Procura, a dir poco spropositato, che sollecitata dalla richiesta di un genitore, anziché archiviare decide di procedere e richiede una pena di due mesi di reclusione a carico dell’insegnante.
Una vicenda che mescola educazione e repressione, senza saper distinguere l’una dall’altra, e che segnala quanto sia difficile, oggi, misurarsi in maniera razionale ed equa con il mondo della scuola e la dimensione esistenziale dei ragazzi, che ci sono di fronte agli occhi, dei quali sembriamo conoscere tutto, e che siamo spesso incapaci di vedere. Un’evidenza che ci abbaglia.
Nell’attesa della decisione del giudice possiamo tuttavia chiederci: che cosa accadrà se l’insegnante dovesse essere condannata? Quale violazione sarebbe perseguita e quale di conseguenza avallata? Il genitore del bambino “umiliato” dalla punizione dell’insegnante avrebbe avuto ragione. Ma non dobbiamo dimenticarci che a sua volta è stato il bambino a deridere un suo compagno. Lo ha chiamato “gay”, “femminuccia”, impedendogli di entrare nel bagno dei maschi. Siamo sicuri che in tal modo non si sentirebbe autorizzato a proseguire i suoi comportamenti “disinvolti” coi suoi coetanei? Quale segnale “educativo” verrebbe dato con una sentenza punitiva nei confronti dell’insegnante?
Se le aule della giustizia si sovrappongono a quelle scolastiche il rischio è quello di un cortocircuito pedagogico. Come se non dovesse essere la giustizia a servirsi degli strumenti della pedagogia, ma la pedagogia a servirsi delle “braccia” della giustizia. In cui l’azione è più importante del contesto, e la decisione più urgente della comprensione.
Tutto questo segnala un potente deficit di relazione: del bambino che non interagisce col suo compagno, dell’insegnante che non sa smantellare il linguaggio violento del bulletto, del genitore che si preoccupa dell’offesa ricevuta e non di quella arrecata, del magistrato che procede burocraticamente senza rapportarsi con la complessità della vicenda. Ognuno di loro chiuso nella difesa delle proprie ragioni. Avendole e perdendole coi propri atti.
La speranza è che la spirale presto si interrompa, restituendo così a genitori e insegnanti la piena responsabilità delle proprie scelte. E dei propri errori.

luigalel@tin.it