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Unità: Quel muro tra noi e i nostri ragazzi

Per la prima volta, la ricorrenza del 20 novembre - giorno in cui la Convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo fu firmata a New York nel 1989 - viene celebrata al Quirinale

20/11/2007
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l'Unità

Anna Serafini
Per la prima volta, la ricorrenza del 20 novembre - giorno in cui la Convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo fu firmata a New York nel 1989 - viene celebrata al Quirinale. Questa possibilità è stata offerta dalla sensibilità del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha accolto con favore la proposta della Commissione Parlamentare per l’infanzia.
È un passo decisivo per l’Italia: il nostro Paese assume una responsabilità comune verso la vita e il percorso evolutivo dei bambini e degli adolescenti, facendo convergere idee e tradizioni diverse.
Assumere una responsabilità comune significa riconoscere che il presente e il futuro di ogni bambina e bambino, di ogni adolescente è ciò che ci sta più a cuore. E ci sta a cuore per la nostra capacità di dare soluzioni ai macroscopici problemi che assillano le nuove generazioni.
Pochi giorni fa ho incontrato il Garante per l’infanzia della Svezia. Mi ha rivelato che, secondo una loro indagine conoscitiva sul fenomeno del dilagare del bullismo, il 60 per cento dei ragazzi svedesi non accredita alcuna fiducia nell’intervento degli adulti a favore delle vittime. E pertanto, è più facile che tanti ragazzi trovino rifugio nel silenzio, piuttosto che nell’apertura e nel dialogo. Non vado lontano se dico che questo fenomeno è presente e dilaga anche in Italia e in ogni parte del mondo occidentale. Anche per sottolineare la necessità di affrontare con maggiore incisività la violenza tra ragazzi, si celebra oggi la giornata mondiale per i diritti del fanciullo.
Alcuni mesi fa, l’autorevole quotidiano Usa Washington Post realizzò una straordinaria inchiesta sul mondo degli adolescenti americani. L’inchiesta partiva da una serie di dati di cronaca che facevano pensare ad una sorta di «disagio generazionale». Cosa ha scoperto, in sostanza, il Washington Post? Ha scoperto che la generazione sottoposta a indagine giornalistica è innanzitutto «multitasking». Cosa vuol dire? Semplicemente che la consapevolezza nell’uso delle tecnologie è giunta ad un punto così elevato e maturo, che ogni mezzo diventa esso stesso elemento della comunicazione. I ragazzi americani - ma tutti i ragazzi del mondo occidentale - convivono con una molteplicità di mezzi con i quali interagiscono con sapiente controllo. Nello stesso istante, essi fanno ricerche sul pc digitando quell’immensa biblioteca elettronica che è divenuta Wikipedia; comunicano con coetanei di qualunque altra parte dello Stato e del mondo con i sistemi comunicativi in tempo reale; si scambiano messaggi istantanei con i cellulari; ascoltano musica con l’i-POD. Certo, hanno anche un libro e forse un quaderno, dinanzi a loro, sulla scrivania. Ma secondo il Washington Post, la generazione «multitasking» sfrutta potenzialmente tante e diverse fonti del sapere. E questo processo è a tal punto collettivo, che si comunica in tanti senza neppure guardarsi negli occhi.
Una volta, le centrali del sapere erano sostanzialmente due: la scuola e la famiglia. L’apprendimento era dettato per lo più dalla presenza reale dei docenti e dai libri di testo. I più fortunati potevano disporre di biblioteche di famiglia o del comune. Noi facevamo le ricerche di approfondimento riunendoci a casa di quel nostro compagno o di quella compagna che aveva a disposizione la costosa enciclopedia. La condivisione del sapere era anche una buona occasione per coltivare intense amicizie e sentimenti forti e profondi. E più o meno questa è la condizione esistenziale che ha caratterizzato le tante generazioni cresciute nel secolo scorso. Poi, è accaduto qualcosa che ha sconvolto letteralmente questo modo di vivere il sapere e le relazioni umane tra coetanei. E ha caratterizzato, appunto, le nuove generazioni nate a cavallo del nuovo millennio.
È accaduto che l’espansione di massa delle tecnologie della comunicazione ha alimentato le fonti del sapere e della conoscenza, ma ha anche trasformato i contenuti e con essi le modalità tradizionali dell’apprendimento. Tutto ciò si riflette nelle nuove dinamiche intergenerazionali. Siamo giunti ad un punto in cui gli adulti di oggi, i padri e le madri, non condividono con i figli le medesime modalità di accesso al sapere e alla conoscenza. E così, non condividono neppure bisogni e aspettative. Paradossalmente, nel mondo della comunicazione diffusa, si assiste al rischio di una sorta di incomunicabilità tra generazioni. Padri e madri usano un lessico che ormai non appartiene ai figli. E i figli adoperano modalità comunicative che i genitori stentano a comprendere. La generazione «multitasking» tende a costruirsi un «mondo a parte», che vuole custodire gelosamente di fronte alle continue e insistenti richieste di intromissione da parte delle generazioni precedenti.
Da dove trae origine questo bisogno di affermarsi narcisisticamente come eroi di Internet? Da una solitudine che nessuna generazione precedente aveva mai avvertito in modo così forte, potente e profondo. Da un certo punto di vista, i nostri ragazzi sono straordinari: sono capaci di scalare le impervie montagne di enigmi e difficoltà di un astruso videogioco; sanno dotarsi di una sorta di linguaggio da iniziati, a loro riservato, attraverso l’uso dei cellulari; sono in grado di costruirsi forme estetiche e musicali del tutto inedite; familiarizzano tra loro all’istante e senza inutili e dannosi diaframmi di ceto, di cultura o di religione. Eppure, avvertono di essere più soli che mai. E lanciano a noi adulti un grido d’aiuto che spesso non siamo in grado di ascoltare.
È pertanto giunto il tempo dell’ascolto e delle scelte.
Per poter ascoltare le ansie, i bisogni, le aspettative e i linguaggi di questa nuova generazione è necessario che noi adulti ripensiamo, fin da ora, le nostre categorie interpretative, per poter essere in grado di sintonizzarci sulla loro stessa lunghezza d’onda. Intanto, noi adulti abbiamo il dovere di rompere quel muro apparentemente invalicabile di incomunicabilità che sembra dividere la relazione tra generazioni. Noi dobbiamo modificare il nostro lessico per essere in grado di capire quello dei nostri figli, e per poter comunicare al meglio con loro. Non viceversa. Il linguaggio - il lessico esistenziale di una generazione - è anche la forma della sua identità. Solo un clima favorevole all’ascolto, nel dialogo tra generazioni diverse, può aprire spazi a scelte istituzionali ponderate e calibrate sui bisogni reali, esistenziali e intellettuali di questa generazione «multitasking».