Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità: Quelli del «modello emiliano»

Unità: Quelli del «modello emiliano»

dove l'operaio studiava insieme al ricco

29/08/2008
Decrease text size Increase text size
l'Unità

IL REPORTAGE

Quelli del «modello emiliano»

Dove l’operaio studiava insieme al ricco

Maestro unico, cancellazione del tempo pieno e voto in condotta. La scuola italiana si sta preparando ad un ritorno al passato, tutt'altro che glorioso. Le 40 ore alle elementari statali, con due insegnanti in cattedra, sono nate nel 1971, con una legge voluta dal Governo. Già allora, quella decisione spaccò il mondo politico: da una parte la sinistra, che auspicava il tempo pieno, dall'altra la Dc, che temeva un attacco alle scuole private. Prima di quella legge, però, c'erano già istituti in cui si stava sperimentando quel nuovo prodotto pedagogico. Una piccola scuola, a Spilamberto, in provincia di Modena, si stava preparando a diventare la guida per quella che sarebbe diventata una rivoluzione del sistema scolastico nazionale. Giacomo Grossi era a quei tempi maestro a Spilamberto. «Alcune amministrazioni emiliano-romagnole, per gran parte del Pci, decisero di attivare il doposcuola, con insegnanti comunali – racconta -. Non si trattava di aiutare i ragazzini a fare i compiti. Si cominciò a pensare che insegnare solo le materie disciplinari, italiano e matematica, fosse riduttivo. C'erano altri linguaggi importanti per il pensiero dei bambini: quello musicale e pittorico, ad esempio. Nei dopo scuola era possibile fare queste esperienze».

Per creare alleanze tra gli insegnanti statali e comunali e dar loro uguale dignità, furono messi a disposizione dei pedagogisti "illuminati", fuori toga. «Il dopo scuola si qualificò, diventando un tempo pieno comunale. Poi, nel 71, è nato il tempo pieno statale». Questo modello, «superava il concetto di maestro unico – continua Grossi – un tuttologo che sa tutto di tutto e poco su tutto. L'insegnamento si poteva articolare in due o tre figure, con specializzazioni più forti: da una parte quello di lingua italiana, dall'altra quello di ambito scientifico». Uno scopo didattico, dunque, ma non solo. «Le famiglie della upper-class, o medio-borghesi, avevano libri in casa e tempo per investire nell'apprendimento dei figli, che potevano così arrivare agli studi superiori ed universitari». La classe operaia, invece a quel tempo non aveva niente di tutto ciò. «Aprire le scuole nel pomeriggio aveva quindi una funzione socio-economica. Più tempo per imparare e minor gap sociale tra le classi. Una possibilità enorme». Con il tempo, anche le famiglie ricche cominciarono a mandare i figli al tempo pieno. «Si aprì una grande mobilità sociale – dice Grossi -. Tutti compresero la ricchezza di questa scuola». Si vennero così a creare le classi miste; non multiculturali, come oggi, ma "multiclasse". I figli della classe operaia o degli emigrati dal sud Italia, dividevano il banco con quelli della media borghesia.

Una ricchezza che ha tutto il gusto del passato. E che sarà cancellata, come il gessetto dalla lavagna, con il ritorno al maestro unico e la soppressione del tempo pieno. «Dopo più di 30 anni, tornerà il tuttologo che, oltre ad insegnare italiano e matematica, dovrà avere un'infarinatura di inglese. Le competenze verranno trascurate ed il rischio è che si torni indietro». Inoltre, «un ragazzino non si confronterà più con una pluralità di figure adulte. Per 5 anni, avrà un solo docente». Si riducono e si semplificano gli ambiti disciplinari e diminuisce il tempo per imparare e stare insieme. «Il tempo pieno non serve solo ad apprendere più cose – conclude Grossi -. Anche a sperimentare relazioni umane tra compagni. Siamo in una scuola multietnica, con le 27 ore classiche, gli alunni dedicheranno il loro tempo solo ad imparare e anche piuttosto in fretta. Ci si incontrerà sempre meno».

Cambia il sistema e anche le pagelle. Dal prossimo anno, tornerà il voto in condotta e, alle elementari, il giudizio diventerà voto. Mara Marani è la dirigente dell'Istituto Comprensivo di Bellaria-Igea Marina, in Romagna. «Faccio questo lavoro con passione da tantissimi anni – afferma –. La mia non è ideologia, solo una presa di coscienza, che mi spinge a dire che stiamo facendo significativi e pericolosi passi indietro». Uno tra tutti, il voto in condotta. «Vogliono farne un deterrente per il bullismo, ma questa cosa non ha senso. I bulli hanno problemi gravissimi, disagi familiari. Con un voto non si risolve nulla. Bisognerebbe investire in formazione, per prevenire questi fenomeni». Il passaggio da voto a giudizio, poi, «è assurdo – riprende Marani -. I nostri insegnanti si sentono già stretti a dover dare sufficiente o buono e spesso chiedono di poter aggiungere qualcosa. Elementi che meglio completano il giudizio, come le attitudini e gli interessi del bambino». Quello che il ministro vuole «è la media matematica fatta sulla base di una tabella di prestazioni. La valutazione è cosa complessa e delicata».