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Unità: Ricerca: più potere agli scienziati

La domanda «È lecito porre un limite alla scienza ?» comporta due diversi interrogativi.

13/05/2006
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l'Unità

di Monique Canto-Sperber*

La domanda «È lecito porre un limite alla scienza ?» comporta due diversi interrogativi.

Dobbiamo innanzitutto chiederci se è concretamente possibile porre un limite alla ricerca scientifica. In seguito, dovremmo cercare di capire se oggi non sia diventato pertinente e legittimo delimitare lo sviluppo delle conoscenze scientifiche per ragioni politiche, sociali o per preservare il patrimonio genetico dell’umanità.

Per inquadrare correttamente il problema, è necessario fare una netta distinzione tra ricerca scientifica fondamentale e ricerca scientifica applicata. Ebbene, per quanto riguarda la prima, sono convinta che sia impossibile circoscrivere il campo delle investigazioni. Chi afferma il contrario ha sicuramente una visione caricaturale, inesatta della scienza. E’ importante ricordare che, all’inizio delle loro indagini, i ricercatori non sempre dispongono di un obbiettivo ben definito. Le loro ricerche esplorano l’ignoto in tutte le direzioni. Le grandi scoperte, in fisica, chimica o in biologia, non sono state realizzate per caso ma sono certamente il frutto di ipotesi di partenza che, nella maggior parte dei casi, sono confuse ed imprecise. Ed è proprio per via della natura indeterminata della ricerca fondamentale che è impossibile porle dei limiti. Inoltre, la ricerca scientifica, in particolare quella fondamentale, si richiama ad una certa innocenza. La scienza è imparziale da un punto di vista etico, come sottolineava anche Max Weber : rappresenta un mero strumento per lo sviluppo delle conoscenze umane. Allora perché tentare di ostacolare un processo che, attraverso la storia ha ispirato filosofi e scienziati, alimentando continuamente la loro sete di sapere? L’ideale etico che ispira i ricercatori - che consiste nel dare delle prove, sperimentare, riprodurre gli esperimenti, verificare e convalidare i risultati, sottoporli infine ad uno scrutinio esterno - potrebbe in questo modo essere messo in pericolo.

Ma la scienza non decide, in quanto tale, dell’uso che verrà fatto delle scoperte scientifiche. Questa precisazione ci invita a prendere in considerazione il secondo interrogativo evocato precedentemente: abbiamo o no il dovere morale, dall’esterno, di porre dei limiti alla scienza? Si tratta di una domanda che dobbiamo affrontare con estrema prudenza. Alcune ricerche scientifiche mettono direttamente a repentaglio dei valori fondamentali, come l’integrità e la dignità dell’essere umano, alla base delle nostre società moderne, liberali e democratiche. Per questo motivo, dovremmo costringerci ad anticipare e immaginare il peggio. Sarebbe necessario, per esempio, ipotizzare l’apparizione, grazie alle scoperte compiute in biologia, fisica, chimica o nel campo delle nanotecnologie, di tecniche capaci di trasformare in modo radicale, forse anche irreversibile, la definizione dell’umano. Basta evocare le nuove possibili manipolazioni genetiche, in grado di modificare le cellule germinali e indurre delle alterazioni che potrebbero essere trasmesse alle generazioni future. La società ha, in questo caso, l’obbligo morale di opporsi ad un certo tipo di progresso scientifico? Cosa fare, per esempio, nel campo della ricerca per la clonazione umana? In questo caso, la riflessione sulla praticabilità delle ricerche e quella sulle sue eventuali applicazioni sono completamente dissociate. Quando le tecniche per la procreazione medicalmente assistita sono state messe a punto in Gran Bretagna e, poco dopo, in Francia, nei primi anni ’80, nessun comitato è stato chiamato a pronunciarsi sulla rilevanza etica delle ricerche che avrebbero portato alla realizzazione della fertilizzazione in vitro. In Francia, la metodologia, una volta perfezionata, è stata applicata nel rispetto di regole pubbliche estremamente rigide. Oggi, assistiamo a reazioni ben diverse nei confronti dei progressi compiuti nel campo della clonazione umana. Ancor prima che la tecnica sia messa a punto, un dibattito intenso si è aperto sull’opportunità e la liceità morale della clonazione. Il dibattito si è impennato nel 1997, dopo la clonazione della pecora Dolly. In Francia, la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane è stata autorizzata solo qualche settimana fa. La ricerca sulla tecnica del trasferimento nucleare a scopo terapeutico è invece ancora totalmente vietata. Siamo dunque confrontati, in questo caso, a delle ricerche effettuabili ma proibite dalla legge, cioè dalla sovranità nazionale.

Viviamo in effetti in società dotate di sistemi normativi rigidi che circoscrivono tutte le attività umane. L’aborto può essere praticato solo fino alla 12ª settimana di gravidanza, la procreazione assistita è autorizzata solo a determinate condizioni…: le nostre azioni sono sempre organizzate e regolamentate. È dunque normale che lo stesso controllo sociale venga esercitato nel campo della ricerca scientifica. Bisogna inoltre sottolineare che nei paesi dove le norme in materia di sperimentazione umana (su soggetti sani o malati) sono più permissive, le scoperte mediche non sono più numerose o spettacolari. Questo ci porterebbe a credere che l’esistenza di una regolamentazione severa non pregiudichi a priori l’avanzamento delle conoscenze.

Immaginiamo solo un istante il seguente apocalittico scenario: la trasformazione delle nostre società liberali in regimi totalitari, nei quali l’autorità suprema - oggi sottoposta al controllo imparziale dell’insieme dei cittadini - cominciasse a prendere delle decisioni arbitrarie e pericolose. Gli esiti positivi della ricerca scientifica, le scoperte in campo batteriologico, in fisica nucleare, potrebbero allora essere strumentalizzati per realizzare i disegni folli, tragici di un potere pronto a tutto pur di non rinunciare al potere. Ovviamente, questi scenari ci sembrano oggi del tutto inconcepibili ma non dobbiamo sottovalutare l’esempio inquietante di alcuni stati, in Medio Oriente per esempio, che sembravano incamminarsi verso la democrazia e il liberalismo e che sono improvvisamente sprofondati nel fanatismo religioso e identitario. Il peggio ci sembra sempre inverosimile ma il nostro compito consiste proprio nell’esplorare tutte le ipotesi, anche le più assurde, per essere preparati ad affrontare qualsiasi cambiamento del giusto ordine delle cose e le nostre paure più profonde. La regolamentazione sociale della scienza diventa, per questo motivo, inevitabile ed essenziale.

La scienza, la comunità scientifica sono capaci di auto-equilibrarsi con grande rapidità. La peggiore minaccia per la ricerca scientifica è proprio l’inganno, la falsificazione o l’anticipazione di risultati che non sono ancora stati ottenuti, verificati e riprodotti. I risultati menzogneri pubblicati dal ricercatore sud-coreano Hwang Woo-Suk e dai suoi collaboratori, per esempio, non hanno potuto resistere a lungo. Tutti i biologi e i medici, membri del Comitato nazionale di Etica francese, impegnati in ricerche sulle cellule staminali embrionali, avevano espresso grande perplessità e sorpresa dopo l’annuncio delle conclusioni di Hwang Woo-Suk. Nessuno si era permesso di contestare apertamente i sorprendenti risultati dei sud-coreani ma l’attesa di una loro convalida era accompagnata da dubbi molto forti e fondati. Questo dimostra, ancora una volta, l’incredibile e naturale rapidità di auto-regolamentazione che caratterizza una comunità scientifica mondiale per la quale il realismo e l’integrità morale continuano ad essere fondamentali. Le nostre società occidentali ne sono coscienti? Capiscono realmente l’universo della ricerca scientifica, le sue dinamiche e le sue problematiche? Innumerevoli pregiudizi e tabù perdurano e l’opinione pubblica non percepisce ancora con chiarezza quali siano i punti di forza, le contraddizioni e i limiti della ricerca scientifica. Bisognerebbe aprire le porte dei laboratori al pubblico, far in modo che i nostri cittadini capiscano cosa siano realmente dei protocolli di ricerca, come vengono effettuate le investigazioni e le sperimentazioni, come si arriva ad un risultato. La ricerca rappresenta un vero lavoro dello spirito, un incredibile sforzo di approfondimento, una scelta di vita che richiede modestia ed estrema umiltà. Le principali qualità del ricercatore sono la pazienza, l’ostinazione, la tenacia, la volontà. L’immagine caricaturale del genio un po’ folle, solo nel suo laboratorio, libero da ogni costrizione sociale e morale, non corrisponde assolutamente alla realtà. Un esempio:uno dei laboratori del dipartimento di fisica della Scuola Normale Superiore di Parigi ha realizzato delle sperimentazioni straordinarie che hanno permesso di immobilizzare degli atomi a delle temperature estremamente basse. Per queste ricerche, Claude Cohen-Tannoudji ha ottenuto, nel 1997, il premio Nobel di fisica. Ebbene, in questo stesso laboratorio, il ruolo dei dottorandi e dei giovani post-dottorandi è stato fondamentale.

I ricercatori sono inoltre inevitabilmente chiamati a rispondere ai bisogni della società e trovare soluzioni a richieste concrete, soprattutto per quanto riguarda il campo delle scienze biomediche. I biologi, i medici che consacrano la loro vita allo studio di queste discipline lavorano quasi sempre negli ospedali e sono costretti a confrontarsi quotidianamente con i malati, le loro sofferenze e le loro speranze. Un esempio: le ricerche attualmente effettuate sulle cellule staminali embrionali rappresentano una delle vie terapeutiche più incoraggianti per la cura delle malattie neurodegenerative. Anche se la società continua a interrogarsi sulla natura etica (o meno) di queste investigazioni scientifiche, lo scienziato continua a privilegiare queste ricerche per soddisfare in primis le dolorose esigenze dei pazienti.

Due anni fa, il Comitato di Etica francese è stato chiamato a prendere posizione sulla liceità della diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni suscettibili di essere colpiti dalla terribile malattia di Fanconi. Questa sindrome, definita congenita, colpisce generalmente i bambini in età scolare e ha un andamento progressivo, con esito solitamente fatale. Il Comitato si è allora interrogato sulla possibilità di avvalersi della diagnosi genetica preimpianto non solo per individuare gli embrioni sani - ed evitare così il rischio della nascita di un bimbo malato - ma anche per individuare quelli immunologicamente compatibili con un fratello o una sorella affetti dalla sindrome. In questo caso, la nascita del bimbo sano permetterebbe un trapianto di cellule staminali ombelicali in grado di salvare il primo figlio malato. Ma cosa fare se, durante la diagnosi genetica preimpianto, nessun embrione sano si rivelasse immunologicamente compatibile? Il Comitato ha dovuto dare una risposta a questo interrogativo estremamente delicato dopo aver incontrato innumerevoli coppie, disperate all’idea di avere un secondo bambino malato. Non solo: questi genitori chiedevano di poter ricorrere alla fecondazione artificiale per poter mettere al mondo con assoluta certezza un cosiddetto «baby-farmaco», un bimbo capace di salvare il bambino malato già in vita. La prima reazione del Comitato è stata unanime: la diagnosi preimpianto deve servire unicamente a selezionare gli embrioni sani, non a produrre potenziali donatori. Ma, dopo aver deliberato per mesi, il Comitato ha maturato una decisione più aperta e permissiva al riguardo, pur sempre accompagnata da numerosi limiti e condizioni. Per esempio: la richiesta di un sostegno psicologico al bambino donatore per evitare eventuali sensi di colpa in caso di trapianto fallito. Inoltre il secondo bambino deve essere realmente desiderato in quanto tale e non rappresentare il semplice frutto di motivazioni laterali e secondarie. È comunque fondamentale sottolineare l’evoluzione radicale intrapresa dal Comitato in questo particolare sforzo di deliberazione collettiva.

Gli stessi ricercatori dovrebbero essere autorizzati, se necessario, a delimitare il campo delle investigazioni scientifiche. I politici o le associazioni che mettono in scena grandi dibattiti democratici sulla scienza, sui limiti da porle, sugli organismi geneticamente manipolati, sui pericoli che l’uso improprio della biologia può comportare, non dispongono, in genere, di un sapere sufficientemente vasto in materia. Così, troppo spesso, la società discute e decide solo in base a un insieme di pregiudizi, di percezioni oscure e errate, miti e immagini distaccate dalla realtà. Per un dibattito sulla scienza vero ed approfondito bisognerebbe nutrire continuamente il sapere scientifico dei nostri cittadini e permettere ai nostri scienziati di svolgere un duplice ruolo: deliberare, in quanto ricercatori, sulla regolamentazione interna delle scienza e farlo, nello stesso modo, in quanto liberi cittadini.

*direttrice dell’École Normale Supérieure di Parigi

(traduzione di Silvia Benedetti)

PARLA la direttrice della Scuola Normale Superiore di Parigi: troppo spesso la società decide solo sulla base di pregiudizi: per un dibattito vero, bisogna informare i cittadini e permettere ai ricercatori di decidere sulla regolamentazione della ricerca