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Unità: Risposta al ministro Zaia: i dialetti sono una straordinaria ricchezza minoritaria in tempi di integrazione e comunicazione universale

Alberto Asor Rosa

17/08/2009
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l'Unità

Ho l’impressione che il Ministro Zaia ed io non c’intendiamo: forse parliamo due lingue diverse. Non c’è alcun dubbio per me sul ruolo esercitato dai dialetti nella storia della cultura e dell’identità nazionale italiana. Mi spiace ripetermi, ma nella mia recente Storia europea della letteratura italiana questo gioco d’integrazioni e rimandi non solo fra dialetti e lingua italiana ma fra culture e identità locali e identità e cultura nazionale è tenuto continuamente presente ed è considerato non un limite ma una ricchezza, una peculiarità italiana in campo europeo. Questo gioco arriva fin quasi ai nostri giorni. Basti ricordare i deliziosi versi in friulano del giovane Pasolini, fondatore dell’«Accademia furlàn», o i suoi successivi (meno felici) esperimenti nel romanesco dei Ragazzi di vita; o l’uso sapientissimo di vari dialetti italiani da parte di un grande come Carlo Emilio Gadda (e fra i più recenti, come non citare un poeta eccezionalmente veneto come Zanzotto?).

Questo gioco, e dialettica d’integrazioni e rimandi va però - sempre - considerato nella sua complessività. Non c’è mai stato in Italia un autore dialettale - da Ruzante a Goldoni a Porta a Belli a De Filippo a Tessa a Marin - che si sia considerato antagonistico alla contemporanea letteratura in lingua italiana, con la quale del resto le integrazioni e i rimandi sono stati sempre per ognuno di loro poderosi; e non c’è mai stata un’isola dialettale regionale, che abbia rivendicato per sè la dignità di lingua alternativa all’italiano, neanche il sardo, che pure, a differenza degli altri idiomi italiani, non è un dialetto ma una lingua (già, chi sa perché di questo nessuno parla).

Oggi la situazione è ancora più chiara: perché la presenza dei dialetti si è, in ogni senso, drasticamente contratta, divenendo decisamente minoritaria; e perché, al contrario, le esigenze di una comunicazione larga ed universale sono enormemente aumentate. Per decine di milioni di italiani la famosa «lingua madre» è ab origine l’italiano: i miei nipoti parlano l’italiano, perché i loro genitori parlavano in casa l’italiano, perché i loro compagni di classe parlano l’italiano, perché i loro libri sono scritti in italiano, perché gli speakers televisivi si esprimono (più o meno) in italiano. Se mai, se proprio un Governo decidesse di occuparsi di questioni linguistiche, ci sarebbe un problema di filtraggio, irrobustimento ed arricchimento della lingua italiana comunemente parlata, spesso imbastardita dall’uso e poco corretta dalla scuola. In tempi d’immigrazione di massa - e dunque, come si dice, d’integrazione - sarebbe opportuno che qualcuno se ne occupasse; e invece nessuno ne parla.

Voglio dire insomma che nella storia italiana le particolarità locali, anche quelle di natura linguistica, sono sempre state ricondotte nell’alveo di una possente spinta unitaria: le due cose non possono non stare insieme, pena la dissoluzione della compagine nazionale e un ritorno all’indietro verso una situazione ferina, tribale, che peraltro, ripeto, in Italia non c’è mai stata. A questo fine portare i dialetti nelle scuole come materia di insegnamento non si può e non si deve: non si può perché non esistono né il dialetto padano (figuriamoci) né quello lombardo né quello veneto, ecc. ecc., ma, per quel tanto che ne resta, il milanese, il varesotto, il pavese, il trevigiano, il padovano, il veneziano, fino alla infinita polverizzazione di ogni borgo e di ogni villaggio; non si deve perché il dialetto, ovviamente, è per sua natura mobile e incostante, sregolato e fiero di esserlo,e regolarlo significherebbe finire di ucciderlo. Altre potrebbero essere, se ci fossero interlocutori capaci di meditarle, le iniziative a sostegno della tradizionale creatività dialettale (senza scadere mai, neanche in questi casi, nel folklore).

Come spesso capita di questi tempi (Berlusconi docet), il Ministro Zaia, partendo da una discussione sui massimi principi, approda alla fine a due proposte modeste, anzi minimali, sulle quali neanche sono d’accordo, e per onestà intellettuale voglio dire perché: 1) la segnaletica stradale è un esempio tipico di linguaggio universale, che serve a tutti, italiani di tutte le varietà regionali, turisti stranieri, immigrati, ecc. ecc.: si serve perciò della lingua più comune e universale a disposizione, nel caso nostro quella italiana.

2) Sconsiglierei vivamente i produttori di «radicchio di Treviso» dall’accompagnare la denominazione italiana con quella dialettale: «radicio trevisan»: si rischierebbe la rapida dequalificazione del prodotto al di qua della linea dell’Adige e al di là della linea del Tagliamento, con effetti nefasti per quella economia.