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Unità: Scuola-lavoro, tiriamo giù quel muro

Se di fronte a una società ultraliberistica abbassassimo la guardia, e delegassimo completamente il principio della formazione al mercato - il quale tuttavia è un concetto più equivoco e sfuggente di quanto si pensi, largo o stretto a seconda della nostra fantasia di rappresentarlo - ci sottrarremmo a una nostra responsabilità

03/05/2006
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l'Unità

Luigi Galella

Ho rivisto Salvatore. All'aeroporto, dove lavora una buona parte dei miei ex studenti. In completo nero e cravatta annodata al collo. «Professore!», esclama sorpreso, e quasi non lo riconosco. Lo abbraccio, come Dante con Casella, incredulo della sua nuova «forma», quasi non potessi afferrarla e mi sgusciasse fra le mani.

«Che fai qui?», «E lei?», «Parto», «E io invece ci lavoro», «Dove?», «Dirigo quel negozio di borse». E mi mostra la vetrina, scintillante di modelli a la page. Orgoglioso.

Salvatore era il più classico degli studenti «casinisti». Il meglio che potesse fare era abbattersi sul banco a dormire. Salvo poi stupirsi del sette in condotta alla fine del trimestre. Quando, l'anno che lo conobbi, con rancore me ne chiese ragione, e mi sfidò con sguardo feroce, minacciando di «sbroccare». Mi parlava così «gentilmente» perché gli ero «'na cifra simpatico», ma con altri era peggio, e tutti me lo descrivevano come un soggetto difficile, quasi un borderline da tenere costantemente sotto controllo. Irrequieto e rissoso, era inadeguato a vivere nell'ambiente scolastico, e non vedeva l'ora di uscirne. Cosa che fece, quando gli consigliai, anziché mollare, di frequentare il corso serale, e lo seguii per sostenere l'esame da privatista, recuperando così un anno. L'esperienza ebbe una felice soluzione. Iniziò a studiare giorno e notte. Ed eccolo infatti, fuori dalla scuola, trasfigurato. Ne sono felicissimo, anche perché mi sembra, un po', di aver contribuito in questo suo successo.

Ora mi parla in buona lingua italiana. E non sembra nemmeno troppo disposto a scherzare, rievocando i suoi trascorsi scolastici, quando lo presento a mia moglie come uno dei più «terribili» studenti che abbia avuto. Perché il lavoro lo ha aiutato a crescere, è vero, ma la scuola lo ha posto di fronte ai suoi limiti, costringendolo a sfidarsi.

48 ore dopo la giornata in cui si celebra la festa del lavoro, tra qualche polemica «di classe», mi chiedo: che cosa ne sarebbe stato di Salvatore senza la scuola? I ragazzi ci provocano: a che serve studiare? Ce lo chiedono in maniera arrogante, fastidiosa. Come se fosse nostra la colpa, o dei genitori che li costringono. La scuola non ha l'appeal del lavoro perché non ne ha l'immediata spendibilità. Come se vivesse in una realtà dimezzata o sospesa. In attesa di. La promessa di un futuro che non si avvera. Una competizione senza traguardo. Irrealistica e illusoria. Che non prepara alla vita. Presuntuosa nell'ergersi a modello educativo, senza averne la forza. Per questo, sempre più spesso i ragazzi vengono sedotti anzitempo dalle lusinghe del lavoro e abbandonano la scuola. Perché si è persa ogni relazione tra l'uno e l'altra. Perché quest'ultima vive nell'iperuranio mentre il primo sta all'inferno. E per loro è mille volte preferibile l'inferno della terra al cielo delle idee.

Tuttavia, torno a chiedermi: che ne sarebbe stato di Salvatore senza la scuola? A giudicare da come si atteggiava, forse avrebbero prevalso la strada e le sue insidie. Avrebbe trovato, cosa che del resto già faceva, lavori e lavoretti. E non avrebbe avuto quella speciale soddisfazione dipinta nel volto il giorno del diploma, che lo riempiva di una gioia immensa, e che mi restituì quando venne a trovarmi. Ce l'aveva fatta. Felice che io avessi tanto insistito perché ci provasse. E che avessi convinto sua madre che poteva farcela.

Scuola e lavoro possono diventare un'antinomia. Non l'una funzionale all'altro, ma contro. Se di fronte a una società ultraliberistica abbassassimo la guardia, e delegassimo completamente il principio della formazione al mercato - il quale tuttavia è un concetto più equivoco e sfuggente di quanto si pensi, largo o stretto a seconda della nostra fantasia di rappresentarlo - ci sottrarremmo a una nostra responsabilità, tanto più grande quanto apparentemente ridotta o annullata dal momento storico. Ci dimenticheremmo di noi stessi, colpevolmente. E del potere che abbiamo sui giovani. Che ci sfidano, ma a loro modo ci amano. E se motivati o persuasi, ci ascoltano.

luigalel@tin.it