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Unità: Scuola, ma che c’entrano i carabinieri

Marina Boscaino

29/05/2007
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l'Unità

Non c’è dubbio: questa volta al ministro della Pubblica Istruzione - Giuseppe Fioroni - va riconosciuto il merito di aver rappresentato in maniera convincente l’idea di scuola che molti insegnanti democratici hanno in mente; ribattendo alle proposte del ministro Livia Turco - discutibili, eufemisticamente - che ha caldeggiato l’intervento dei Nas in quei covi di spacciatori che sembrerebbero essere - considerato il tipo di proposta - le scuole italiane. Un deterrente quantomeno allarmante per rispondere ai recenti gravi episodi di cronaca. «Fuori dalla scuola massima collaborazione con le forze dell’ordine per contrastare lo spaccio. Ma oltre i cancelli devono essere i dirigenti a monitorare la diffusione e il consumo. Se la situazione dovesse rivelarsi grave, arriveranno gli ispettori del ministero».
Da queste parole del ministro Fioroni emerge un «dentro» e un «fuori», una limitazione di quello spazio e di quel luogo che chiamiamo scuola e alla quale, di norma, attribuiamo o dovremmo attribuire una serie di prerogative: tra le prime c’è quella dell’individuazione netta della differenza tra educazione e repressione. E invece ecco cosa ha detto la Turco in merito alla propria proposta: «È un’operazione di educazione alla salute». A quali principi condivisi, a quali alte finalità, a quale mandato costituzionale si ispira l’idea di una scuola che ci si propone di trasformare, nel 2007, in un luogo di repressione? A quale tipo di elettorato ci si rivolge, quando si sostiene una tesi di questo genere? Quale tipo di elettore si vuole suggestionare, convincere? È una strategia che non paga, dovrebbe essere chiaro. Al contempo è pericolosa per la scuola. Perché rafforza oltremodo quella irresponsabile lettura della scuola pubblica italiana che gran parte dei media si è occupata di diffondere, descrivere, proporre come l’unica possibile (che esiste, che va combattuta, ma che rappresenta l’eccezione). Dunque, la scuola pubblica italiana è talmente malata e marcia da richiedere il presidio delle forze dell’ordine, nonché il test antidroga per i ragazzi, come illuministicamente era stato proposto qualche tempo fa dalla nota pedagogista Letizia Moratti.
Un po’ sommessamente, un po’ sottovoce per evitare di essere considerati troppo retrò e obsoleti - poco «moderni», comunque - occorre chiedersi che fine abbiano fatto anni di battaglie - fuori e dentro le aule scolastiche - per far comprendere che la priorità va all’azione educativa. I luoghi di quelle battaglie, i temi di quelle battaglie sono tutti tenacemente presidiati da revisionismi dall’amaro sapore tradizionalista.
Se - nel campo delle regole - la normativa anticellulare del ministro Fioroni mi sembrò uno strumento demagogico impossibile da far rispettare e pertanto fonte di ulteriore delegittimazione degli insegnanti; e se pure al ministro va riconosciuto l’indubbia intelligenza politica di essere tra i principali motori di quell’operazione di riduzione della tensione civile e politica a criteri da rediviva Balena Bianca, ieri le sua difesa della scuola e della dimensione educativa - nonché l’intransigenza nei confronti di intrusioni repressive al suo interno - hanno rappresentato la rivendicazione condivisibile che, nella comunità sociale che chiamiamo scuola pubblica - il luogo della crescita della coscienza critica e della cittadinanza -, non può esserci spazio solo per il potenziamento delle professionalità che percorrano fino in fondo la strada dell’educazione: investimento, fiducia e incentivo alla professione dei docenti, esercizio delle regole che esistono e che devono essere rispettate e fatte rispettare; rafforzamento, infine, della dimensione della relazione educativa e culturale.