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Unità: Scuola, rompiamo il silenzio

Marina Boscaino

11/10/2008
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l'Unità

Cinquecentomila ragazzi in piazza in tutta Italia. Era tempo che non si assisteva a una manifestazione così diffusa e imponente. E che ha dato una prima, concreta risposta alla domanda di Simonetta Salacone, dirigente scolastico della scuola elementare Iqbal Masih di Roma, avanguardia del movimento di resistenza attiva e costruttiva alla coppia Gelmini-Tremonti. Simonetta, oltre ad essere esperta e capace, è anche una donna realista. Davanti a una platea di insegnanti e politici, ha chiesto chi - tra politica, sindacato, enti locali, amministrazione - sarà in grado di raccogliere l’eredità della grande mobilitazione della scuola primaria messa in piedi a Roma e in altre città d’Italia, una volta che i riflettori del mondo dell’informazione si saranno fatalmente spenti. La domanda è legittima, considerando che la scuola italiana passa da momenti di sovraesposizione mediatica - spesso gestiti in maniera pedestre e approssimativa - a lunghissime fasi di oblio. Ma c’è una domanda precedente: che fine ha fatto la scuola superiore? Latitanza assoluta, a parte l’incoraggiante risposta dei ragazzi. Ma gli insegnanti? L’impressione è che da alcuni anni, più che un’idea di scuola come sistema organico che garantisce il Paese nella sua crescita culturale e nell’educazione ai diritti di cittadinanza, essa sia considerata un insieme di segmenti, quasi avulsi l’uno dall’altro, e pertanto indifferenti, o quasi, alle sorti l’uno dell’altro. Le battaglie contro la Moratti furono anni fa considerate una bega degli insegnanti delle primarie, svincolate da qualunque visione di scuola come bene comune e da qualunque rappresentazione di un sistema di welfare universale. Oggi, per il momento, chi sta facendo le spese della scellerata politica del Governo è, ancora una volta, soprattutto, la scuola primaria; e - come allora - il silenzio delle medie e delle superiori è assordante. La miopia di un simile atteggiamento è evidente da molti punti di vista. Innanzitutto dà il senso di una partecipazione e di una reazione che nasce solo dal contatto diretto con situazioni di emergenza. Questo, in molti casi, rischia di trasformare le mobilitazioni, i movimenti - anche i più efficaci e costruttivi - in una reazione all’emergenza stessa; e non nell’occasione per inaugurare una riflessione comune su un problema culturale complesso e delicato, quale quello che investe globalmente la scuola italiana e le rappresaglie dei vari governi: ancora una volta gli insegnanti italiani derogano alla propria funzione intellettuale in senso ampio. Inoltre, configura un’idea di scuola non come sistema organico, dal punto di vista didattico e della cura dello sviluppo della emancipazione degli individui che sono e saranno gli studenti, ma come sistema settoriale, scollato completamente da qualunque idea di verticalità. Marca poi una vistosa lontananza tra ordini di scuola che - attraverso dialogo, coesione, solidarietà - indicherebbero alla politica e all’amministrazione un “mondo della scuola” come interlocutore non solo nominale. Un mondo della scuola più forte, perché compatto, sinergico; capace di elaborare, comunemente, idee e resistenza. Invece le scuole elementari, oggi come qualche anno fa, stanno reagendo in totale solitudine alla strategia economicista del governo che - oltre a tagliare posti di lavoro - impoverisce in maniera irreversibile l’impianto didattico-culturale di quel segmento di scuola. Infine, in questo silenzio, hanno buon gioco le voci di chi si associa alle nostalgiche pseudostrategie culturali del governo e ai suoi inadeguati, muscolari provvedimenti, in una indefessa difesa del passato (che, si badi bene, non coincide necessariamente con serietà, rigore, competenza). Che nel vuoto di senso della nostra società esercitano un’attrattiva fatale sull’opinione pubblica. Demotivazione, disimpegno, il risultato della mancanza di quella collegialità che invece connota la scuola primaria e ne costituisce una forza innegabile: la situazione alle superiori è questa. È probabile che si avvertirà un rigurgito di reazione quando arriveranno i “piattini” che Gelmini&C stanno preparando, quando si sentiranno gli effetti dei tagli preventivati, se e quando la proposta di legge Aprea dovesse attuarsi, nel momento in cui le promesse revisioni ordinamentali dovessero concretizzarsi. Ricordiamo, comunque, che una gran parte degli insegnanti non ha ritenuto opportuno scaldarsi per il pasticcio sull’obbligo (scolastico di istruzione), e ha in molti casi reagito tiepidamente alla questione dei debiti scolastici, dimenticando per lo più che non si trattava solo di un problema di organizzazione interna alle scuole, ma dello spunto per inaugurare una seria riflessione culturale e didattica.

Sfruttando il coinvolgimento responsabile delle famiglie e degli studenti, potrebbe essere questo il momento di ribadire che, quando si deve fare i conti con il mondo della scuola - luogo della democrazia, della cultura emancipante, del dibattito critico - la coesione tra le sue componenti è obbligatoria, etica, politica e passa attraverso l’esigibilità dei diritti, l’esercizio dei doveri e l’interpretazione puntuale e intransigente dei principi della Costituzione. Attori e spettatori passivi: dura da troppo tempo. Speriamo che la manifestazione di Torino di qualche giorno fa, i 500.000 ragazzi di ieri, lo sciopero dei sindacati di base del 17 e lo sciopero del 30 dei confederali siano l’inizio di una risposta responsabile all’emergenza democratica che stiamo vivendo.