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Unità-Storie di tutti i David che a 14 anni smettono

Storie di tutti i David che a 14 anni smettono di Oreste Pivetta T utte le sere in metropolitana. Lo vedo sempre, anche se non è sempre la stessa ora. Le scarpe a posto, calzoncini e m...

19/07/2005
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l'Unità

Storie di tutti i David che a 14 anni smettono

di Oreste Pivetta

T
utte le sere in metropolitana. Lo vedo sempre, anche se non è sempre la stessa ora. Le scarpe a posto, calzoncini e magliette in ordine, persino pulite. Dieci dodici anni. Suona il violino. Non lo sa suonare, muove l'archetto sulle corde mal tese. Lo accompagna una bambina, che prima della fermata estrae il bicchiere di Mcdonald ripiegato, lo apre e lo mostra ridendo ai viaggiatori. Nei gesti si legge il senso di un lavoro che è un'abitudine vissuta con allegria, anche se nel bicchiere di carta ormai non cade neppure una moneta. Come capita sempre più spesso. Sono troppi i suonatori in metropolitana e troppo frequenti. Non c'è corsa senza due note di fisarmonica. Così nasce la concorrenza anche tra i suonatori, che scrutano o spiano le mosse uno dell'altro, per non intralciarsi. A ciascuno il suo treno. I bambini sono rom, ben vestiti per immaginarli abbandonati. I cassonetti della Caritas sono gonfi di abiti smessi. Qualcuno, come è capitato nei mesi scorsi, è morto straziato e soffocato, per raggiungere qualcosa più sotto di un'altra.
La storia del piccolo rom violinista non sarà tra le più tristi che possono capitare a un bambino. Probabilmente avrà genitori, altri parenti, fratelli e sorelle, una baracca in un campo nomadi alla periferia, mangerà, eccetera. Deve produrre e alla fine della giornata dovrà presentare il conto. Comunque non gli mancano i legami e, forse, una protezione. È l'immagine più forte, più comune, frequente di una condizione ai margini. Non frequenterà una scuola, chissà quale prospettiva di vita si potrà un giorno dare. Chissà quali sogni.
Quanti sono i suoi coetanei ai margini? Ragazzi che vivono d'elemosina, che rubano, che spacciano droga, che si prostituiscono, che s'arrangiano. Bisogna sbattere contro la Giustizia minorile per entrare in una statistica, ma i numeri ufficiali sono infinitamente inferiori alla realtà: cinquecento ragazzi reclusi negli istituti penali, tremilaottocento ospiti nei centri di prima accoglienza. Queste sono le medie giornaliere, dati del 2004. Ragazzi che sono italiani e stranieri immigrati, quasi esattamente a metà e che nella divisione rappresentazione la rivoluzione di questo paese. Diceva don Gino Rigoldi, entrato cappellano al Beccaria trent'anni fa, che allora arrivavano nel carcere minorile milanese più di mille ragazzi ogni anno, tutti figli di immigrati del Sud, tutti provenienti dai quartieri delle periferie: "Ho visto una generazione di ragazzi conquistati dall'idea di poter avere cose e denaro, abbandonati a se stessi negli anni della crescita, con una famiglia impegnata nel duro compito della sopravvivenza, meno attrezzata nel suo nuovo compito educativo, nel deserto dei palazzoni".
Siamo nel capitolo dei reati. Il cambiamento è avvenuto con la droga e con l'immigrazione, non altrettanto nelle aspirazioni. Poi ci sono gli altri, i più numerosi, che potrebbero primo o poi precipitare ma che non conoscono ancora il percorso da un commissariato di polizia a un'aula di giustizia, dalla detenzione alla comunità: gli abbandonati, i delusi, i traditi, i disadattati. Quelli che sono arrivati in Italia, perchè avevano promesso loro un lavoro che non c'è. Quelli che sapevano di un lavoro, la droga o la prostituzione, e lo immaginavano (e magari ancora lo cercano e lo difendono) come un modo rapido per guadagnare e per tornare. Ci sono quelli che sono qui con nuove famiglie, che sono stati adottati, che hanno avuto la possibilità di una vita con qualche agio, la scuola, il cibo, le amicizie, persino l'affetto di imprevisti genitori, ma che non si sono ritrovati e alla fine non se la sono sentita di accettare una lingua diversa, un luogo diverso, facce diverse. Hanno vissuto tutto il peso di una traversata da un continente all'altro e il trapianto.
I casi sono questi: il ragazzo che spaccia, il ragazzo che ruba, il ragazzo che si prostituisce, il ragazzo che rifiuta l'adozione e che difende la memoria di una terra sua, per quanto lontana.
Siamo viziati dai pregiudizi e da certi codici di comportamento. Come si fa a pensare che l'affamato ragazzino indiano possa respingere il benessere italiano. Che il piccolo rumeno preferisca la strada alla comunità, insegua tenacemente la sua nuova condizione di sfruttato del sesso e che metta in conto gli anni necessari per disporre dei soldi che lo liberano.
Proprio una storia così, quella di Dorin, bambino rumeno cresciuto nel sottosuolo di Bucarest insieme con i topi e solo con bambini come lui, dà il titolo a un libro di Livia Pomodoro, persona assai nota a Milano, per il difficile e sempre più difficile mestiere che da anni è il suo, quello di presidente del Tribunale dei minori: A quattordici smetto (pubblicato da Melampo), bel titolo sicuramente, allusivo, evocativo.
Leggendolo mi sono venuti in mente Dickens, il grandissimo Dickens, Jack London e persino Ammaniti. Dicendo Dickens, dico Oliver Twist, l'orfanello dalla nascita che sopravvive fino a nove anni in un ospizio di mendicità, poi fugge e finisce nelle mani di una banda di borsaioli, capeggiata dall'orribile Fagin e che dopo infinite peripezie viene adottato dal ricco e generoso signor Bronlow. Jack London mi è venuto in mente non per Il richiamo della foresta o per Zanna Bianca, bensì per Il popolo dell'abisso, splendido racconto reportage dentro i più poveri, maleodoranti, travagliati quartieri dell'East end londinese. Per raccontarla, quella vita infame e misera, Jack London l'aveva provata, convivendo per mesi e mesi con i diseredati dell'East end. A Niccolò Ammaniti ho pensato per le sue storie di bambini rapiti e di complicità adolescenziali e di adulti feroci.
Non valgono i confronti letterari. Dickens sarebbe inarrivabile. Ma c'è qualcosa di comune nella scena. Livia Pomodoro ci riporta in fondo là, dentro quello stesso universo di sofferenza, di sfruttamento (dei grandi sui piccoli, dei meno piccoli sui più piccoli), d'incomprensione, aggiungendo molto di suo, della sua esperienza professionale, per descrivere le vittime ma soprattutto per aiutarci a leggere non solo la malvagità aperta, chiara, di chi usa quei "minori" per i suoi scopi criminali, ma anche la superficialità, la supponenza, gli egoismi nostri, cioè degli adulti buoni, degli adulti che vorrebbero proteggere, aiutare, adottare, guidare, senza mai comprendere, senza mai rischiare nulla di se stessi, delle proprie convinzioni, della propria moralità. Benefattori così poco generosi da non riuscire a tollerare una sconfitta.
Livia Pomodoro racconta dodici storie esemplari, di migranti, trascinati per forza sulle nostre spiagge e nelle nostre piazze, oppure illusi dalle solite promesse: farai il calciatore, studierai, guadagnerai molto. Tante volte neppure illusi, perfettamente consapevoli del proprio destino: la ragazzina albanese che verrà in Italia per prostituirsi, venduta dalla madre, il ragazzino nordafricano che sa già delle bustine di polvere bianca che dovrà rivendere all'angolo di una strada, il magro cinese che sbarca senza una parola d'italiano o un indirizzo e si rifugia in una fabbrica clandestina che lo sfrutta atrocemente fino a minacciarlo di morte.
Poi ci sono gli adottati, ragazzi indiani o ragazze ucraine, destinati sembra ad una vita felice, in una famiglia felice, che li accoglie con amore e che colma un vuoto, strappati però a una vita loro, ai loro sogni, ai loro panorami, persino alle parole della loro lingua. La prima storia è appunto quella del rumeno Dorin, che passa la notte in una piazza di Milano e il giorno per riposare in un sottoscala, sempre meglio delle cantine di Bucarest. Dorin rifiuta qualsiasi aiuto perché vuole guadagnare tanto e subito. Sa che a quattordici anni smette, con una lucidità che brucia le nostre idee del bene o del male. Fuggirà dalla comunità che lo ospita, mentre chi dovrebbe custodirlo guarda dall'altra parte: in comunità i posti letto si pagano vuoto per pieno. La seconda storia è quella di Dinesh, il ragazzino che dal golfo del Bengala vola in Italia con nuovi genitori, che custodisce, chiude però nel proprio cuore il ricordo del suo paese, non accetta quest'altra vita occidentale, diventa come dicono i tecnici del tribunale "minore non accompagnato sul territorio" ed è l'immagine di un'adozione fallita e un'altra prova dolorosa del fallimento delle nostre idee di male e di bene.
Vorrei citare altre storie, ad esempio quella di Felipe, che dopo le violenze una propria strada la trova insieme con la sorella Soledad. Che c'entrano alla fine queste storie con Dickens e con Jack London? Un secolo o due secoli dopo mi sembra di ritrovare le stesse luride cantine e gli stessi luridi sottoscala, le stesse strade, le baracche nel fango, gli stessi Fagin sfruttatori e gli stessi Bronlow protettori di Oliver Twist. Una rivelazione rispetto a tante nostre certezze di modernità, di progresso, di benessere, al nostro stesso orgoglio d'occidentali ricchi. È come se Livia Pomodoro mettesse in fila i personaggi di un eterno romanzo, dove il conto del male è quasi sempre in attivo e dove l'ambiguità è la figura che guida e c'è molto di inevitabile in queste quotidiane tragedie. La corsa al benessere lascia sempre qualche ritardario.

BAMBINI che si prostituiscono, che rubano, che chiedono l'elemosina ma sognano un futuro diverso che cancelli la brutalità del quotidiano. Le loro vite sono raccontate da Livia Pomodoro, presidente del tribunale dei minori di Milano