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Unità: Tracce vecchie di Maturità

Forse c'è davvero qualcosa che molti di noi non hanno capito. O forse il problema è un altro. Comunque sia, è arrivato il momento di farci dire veramente che cosa vogliono da noi

22/06/2006
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l'Unità

Marina Boscaino
Forse c'è davvero qualcosa che molti di noi non hanno capito. O forse il problema è un altro. Comunque sia, è arrivato il momento di farci dire veramente che cosa vogliono da noi. Perché, con tutti gli sforzi, non possiamo fare a meno di essere disorientati, sconcertati. Ieri l'apertura delle buste della prima prova dell'Esame di stato ha provocato non poca perplessità, qualche malumore, riflessioni pesanti sul fare scuola e sul modo in cui esso viene interpretato da chi ne ha la responsabilità. Al di là delle facili suggestioni e persino della «sorpresa» costituita dall'uscita di Ungaretti, protagonista già dell'esame del 2000.E al di là della pesantezza del tema generale sull'artigianato, con cui i diciannovenni secolarizzati di oggi credo abbiano poca dimistichezza; al di là ancora della ovvietà di alcuni suggerimenti (finalità e limiti della conoscenza scientifica), due tracce sono sembrate particolarmente assurde. Uso di proposito questo aggettivo, proprio a sottolineare la distanza siderale tra quelle consegne e la scuola, così come ci si dice che debba essere concepita. Una distanza che conferma l'impressione che questo esame, oltre ai limiti derivanti da una perdita generale di credibilità, se non viene accompagnato da un serio ed attento ripensamento sul ciclo superiore non può avere lunga vita.

Iniziamo con il caso meno eclatante, seppure significativo: i cardini del pensiero di Mazzini. Chi come me insegna alla scuola superiore sa bene come le colleghe di storia volenterosamente cerchino di inserire il pensiero e l'azione di Mazzini nel programma del quarto anno, per poter affrontare più agevolmente il Novecento, cui sostanzialmente è finalizzata la didattica dell'ultimo anno secondo i programmi ministeriali.

Ma il vero colpo da maestro nella definizione delle tracce è stata la scelta del testo di Giuseppe Ungaretti. Dal ministero hanno voluto farci capire che hanno studiato, scegliendo una lirica - Isola, tratta dal Sentimento del tempo - paradossalmente lontana dall'Ungaretti più conosciuto, più indicativo e sintomatico di un certo percorso della lirica italiana, più attestato in tutte le storie della letteratura; più utile, infine, per far capire ai giovani l'uomo del '900: quello dell'Allegria. Bravi! Ma si dà il caso che abbiamo studiato anche noi, a volte molto a lungo. E che spesso continuiamo a studiare, per far quadrare il cerchio di un programma di letteratura italiana immenso - quello dell'ultimo anno di scuola superiore - che quando tutto va bene parte da Foscolo per approdare scompostamente e affannosamente (in mezzo c'è gente come Manzoni, Leopardi, Verga, i simbolisti, Pascoli, Fogazzaro, D'Annunzio) a metà primavera al Novecento, il secolo che giustamente viene indicato come nucleo centrale della riflessione. In questa rincorsa nevrotica contro il tempo e contro l'arrivo degli esami, ciascuno mette a punto i propri strumenti didattici per illustrare agli studenti i caratteri salienti, gli elementi di poetica più caratterizzanti ognuno degli autori del Novecento che è necessario affrontare (si pensi, per citare i più conosciuti, ai frammentisti, a Pirandello, Svevo, Montale, Saba, gli ermetici, i realisti degli anni '30, i neorealisti, Gadda, Pasolini, Calvino). In Isola e nel Sentimento del Tempo tutti gli elementi più tipicamente ungarettiani, sia dal punto di vista tematico che formale virano, si modificano sensibilmente: c'è un riavvicinamento ai valori tradizionali della letteratura, c'è il superamento dell'autobiografismo, la collocazione in uno spazio-tempo indeterminato, l'astrazione dalla realtà; alle forme spoglie dell'esordio si sostituisce un sistema narrativo e descrittivo, che si ricompone nei toni del canto, dell'elegia e dell'inno. L'individualità si esprime tramite emblemi e figure mitiche e universali, l'interpretazione da parte del lettore diventa più precaria sia per il lessico che per la sintassi. Questi pochi cenni, comunque superficiali, servono non per dimostrare ai signori del Ministero che anche noi studiamo, ma per sottolineare la non opportunità, l'assurdità di una scelta. Si potrebbe ribattere sostenendo che il saper fare un'analisi del testo può di per sé bastare ad affrontare qualunque testo. Ma l'analisi del testo non è un quiz a premi, né una gara di abilità tecnica: è una tipologia di prova che mette in gioco la sensibilità, l'intuizione, ma soprattutto le conoscenze dei candidati. E un'analisi consapevole e accurata non può prescindere dalla conoscenza dell'autore che ha composto il testo. Mentre può prescindere dalla conoscenza diretta del testo medesimo.

Occorre riflettere e mettersi d'accordo su due punti: come interpretare le prove dell'esame e cosa decidere di lasciare ai propri alunni. Sul secondo punto non ho dubbi: non desidero lasciare loro un'idea disorientante ed arbitraria di una scuola in cui la testa non comunica con i piedi; di una scuola su cui può piombare, improvvisamente, un fato irragionevole e prosastico, a cui nulla importa di come e quanto si è fatto scuola, somministrando tracce irragionevoli e inutilmente insidiose. Non desidero fargli credere che sapere o non sapere è la stessa cosa o che un testo letterario è un rompicapo impenetrabile, cui accedere inconsapevolmente a colpi di intuito. Avrebbero potuto non scegliere quella tipologia. Ma perché? E soprattutto, visto il tipo di scelta, per quale motivo dare delle tracce identiche per tutti gli indirizzi - dal professionale al liceo classico? Quanto avvicinerà una prova di questo genere gli studenti non liceali alla lettura della poesia o alla curiosità per la letteratura? Rispetto all'interpretazione dell'esame, invece, non ho certezza, ma solo una richiesta: fateci capire che cosa volete da noi. Perché io evidentemente - anche se tra i miei alunni del liceo classico otto hanno scelto quella prova - non ho le idee abbastanza chiare.