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Unità: Tutti i sì del NO

C’era una volta un signore che amava indossare (e far indossare) una divisa confezionata in orbace nero

11/06/2006
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l'Unità

Gian Carlo Caselli

C’era una volta un signore che amava indossare (e far indossare) una divisa confezionata in orbace nero. Ogni tanto si affacciava ad un balcone o trebbiava il grano. E ogni volta gonfiava i muscoli e induriva le mascelle. Voleva comandare tutto da solo.
Durò circa vent’anni, durante i quali combinò anche qualcosa di buono (difficile sbagliarle tutte in un così lungo periodo...). Ma alla fine portò alla rovina il suo Paese: l’Italia.
Dopo i disastri del fascismo, gli italiani si dissero che bisognava evitare - in futuro - che potesse ancora esserci un uomo solo al comando. Fu così che 556 eletti dal popolo, uomini e donne di diversi orientamenti (democristiani e comunisti, socialisti e liberali, repubblicani e azionisti, credenti e non...), si riunirono in un'assemblea costituente, lavorarono sodo per 18 mesi e alla fine elaborarono insieme - raggiungendo un accordo di altissimo livello - una legge-base: la Costituzione repubblicana del 1948.
Obiettivo della Costituzione è tenere insieme libertà ed eguaglianza, mediante un progetto di stato condiviso da tutti, fondato su regole eguali per tutti, senza che a prevalere siano rapporti di forza a vantaggio di qualcuno. Il progetto è quello di una democrazia emancipante, dove lo «status» del cittadino comprende non solo il diritto di voto, ma pure il diritto a condizioni di vita decorose: anche per i disoccupati, gli anziani, i malati, i meno protetti. I principi di giustizia distributiva sono così principi codificati, consacrati nella carta fondamentale. Perciò le politiche per realizzarli sono dovute, non più negoziabili.
Questa la novità «rivoluzionaria» del costituzionalismo moderno. Una novità oggi in pericolo. Perché si profilano diffusi tentativi di chiudere questa stagione e di ritornare ad un vecchio modello: in forza del quale lo status e le libertà dei cittadini (e degli immigrati) tendono a dipendere non tanto dalle regole, quanto piuttosto dai rapporti di forza. In questo quadro va inscritta anche la tendenza, ormai diffusa, ad operare perché la Costituzione sia riformata.
In realtà, la Costituzione vigente gode ancora di ottima salute. Essa disegna un sistema in cui c’è sempre qualcuno che controlla qualcun altro. Pesi e contrappesi, per evitare - nel cupo ricordo delle tragedie causate dalla dittatura fascista - la «primazia» (o supremazia) di un potere sugli altri. Questo sistema democratico ha funzionato e chi ha avuto volta a volta la maggioranza ha potuto governare come voleva. Eppure, è di moda dire che la Costituzione è un ferro vecchio, da cambiare.
Nella legislatura appena conclusa ci hanno pensato 5 «saggi». Riuniti per pochi giorni in una baita di montagna, fra polenta e buon vino, hanno escogitato varie novità, poi rapidamente approvate dalla maggioranza di centro-destra. Il Capo dello Stato perde il potere di sciogliere le Camere. Le Camere - alla fin fine - di fatto possono «licenziare» (sfiduciare) il Presidente del Consiglio soltanto se lui è ….d'accordo. La Corte costituzionale (pilastro a difesa dei diritti fondamentali di tutti gli italiani) perde indipendenza rispetto al potere politico, perché aumenta in modo decisivo il numero dei componenti di nomina partitica. La camera dei Deputati ed il Senato (regionale) sono organizzati, quanto a competenze e funzionamento, in maniera piuttosto confusa, se non reciprocamente paralizzante. Qualcuno ha sintetizzato con la parola «vattelapesca» quel che potrà succedere in concreto.
In sostanza, è la rivincita della politica - di una certa concezione della politica - sulle regole e sul diritto. I controlli si riducono ed i poteri si concentrano in poche mani. Torna a profilarsi l'ombra del governo di uno solo. Un «ducetto», se vorrà esserlo. Ovviamente, che governi Romano Prodi o Silvio Berlusconi o chiunque altro non cambia un bel niente: i pericoli, per l'equilibrio costituzionale fra i poteri dello stato, rimangono gli stessi.
C'è poi il nocciolo duro della «devolution» italiana, cioè la ridefinizione del rapporto fra potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, con attribuzione a queste ultime di competenza esclusiva in materia di sanità, scuola e polizia amministrativa locale. Tale competenza potrebbe essere attuata (sotto la spinta di fattori economici o volontà politiche contingenti) nel senso di una frantumazione dei sistemi sanitari e scolastici, con forti differenze di prestazioni nelle varie regioni. Persino con possibili discriminazioni tra residenti e non, a prescindere dalla oggettiva gravità delle patologie lamentate. La prospettiva è quella di un federalismo nemico dell'eguaglianza.
Il 25 giugno, andando a votare per il referendum che deciderà se confermare o meno la riforma, si tratterà dunque di scegliere fra due sistemi: quello della Costituzione vigente, che prevede una democrazia pluralista, e quello della «nuova» Costituzione, che delinea - come si è visto - uno scenario diverso, con possibili ripercussioni sulla stessa idea di eguaglianza dei cittadini. Due sistemi assai lontani, come assai lontani sono stati i metodi praticati per arrivarci. Quale dei due sistemi è meglio?