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Unità: Una scatola pericolosa chiamata aula
PRIMO GIORNO DI SCUOLARoma, prima dell’elementare Alonzi: una stanza 4 metri per 5, bambini stipati uno all’altro come in una batteria da pollaio
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Primo giorno di scuola, la manina di Laura stringe forte la mia, quando imbocchiamo la salita che porta all’ingresso. Ridiamo, perché la paura si manda via anche così. E ci raccontiamo di quanto sarà bello andare alla scuola dei grandi. Entriamo dai, eccola finalmente la Prima C dell’elementare Alonzi, media periferia romana.
Il mio sorriso si spegne quando varco la soglia dell’aula e dò un’occhiata in giro. A occhio quattro metri per cinque, una sola finestra. I banchi riempiono ogni centimetro disponibile: sono divisi in tre file, quelli disposti ai lati sono appoggiati alle pareti. I bambini in pole position nella fila centrale si trovano la lavagna quasi di spalle, ma a quell’età non sanno ancora cosa sono i problemi di cervicale. Mi viene da pensare che sarà il caso di chiedere una fornitura di paracolpi per i ragazzini seduti sulla destra, condannati a sbattere i gomiti sul muro per imparare a scrivere.
Mi infilo nei quaranta centimetri del corridoio che separa i banchi al centro di quella che ostinatamente rifiuto di considerare un’aula. Mentre mi faccio strada inciampando sugli zaini che ingombrano il passaggio - e che non si saprebbe davvero dove altro mettere: non ci sono né scaffali, né ganci, né figuriamoci i famosi armadietti che si vedono solo nelle scuole dei telefilm - penso che non può essere vero. Ma come, a giorni alterni c’è sempre qualcuno pronto a pontificare sulla denatalità, sull’egoismo della coppia e delle donne in particolare, e poi non si sa dove mettere i pochi ragazzini superstiti di una società che predica bene e razzola sempre malissimo?
La maestra è affabile e rassegnata. Provo a spiegarle che non è possibile fare lezione a 23 ragazzini in 18 metri quadrati, che questi sono bambini ancora piccoli e non possono restare prigionieri nei loro banchi per cinque ore al giorno, che la didattica... Lei è paziente e non smette di sorridere, mi chiede se Laura è figlia unica, come se questa fosse un’attenuante, per me intendo. Vorrei spiegarle che ognuno dei miei figli è unico e che il fatto di averne più d’uno non significa che Laura debba fare lezione in una batteria da pollaio. Ma non è il momento e mi limito a dire che no.
Non perdo tempo ad elencare le tre i di berlusconiana memoria, la prima di queste è servita al mio figlio maggiore a imparare a dire «my name is»: unico risultato in cinque anni. Le seconde i risultano «non pervenute», come una volta le temperature delle città periferiche.
A questa scuola sono già abituata, se è questo che voleva dire la maestra. So per esempio che si paga a parte per avere un’ora di ginnastica in più a settimana oltre l’una del programma, o per il corso di coro. Che bisogna portarsi da casa la carta igienica, il sapone e lo scottex. E che le risorse sono talmente all’osso che ho comprato di tasca mia anche il gesso per la lavagna. Ma l’aula almeno...
Laura intanto si è impuntata come un mulo davanti alla porta della sua classe. «Voglio andare in prima ma non in questa scuola», sintetizza telegrafica. Io sbircio tra i banchi e vedo una cella, ma almeno questi ragazzini non hanno la divisa a strisce. Mi sforzo di cambiare sguardo: come sono belli, sembrano tanti pulcini. In un pollaio industriale. E intanto provo a dire al mio mulo con le treccine bionde e la gonna a pois che in fondo se la stanza è tanto piccola sarà più facile fare amicizia. Le chiedo un sorriso, perché non si va a scuola con il muso lungo. Ma dubito che queste quattro mura abbiano un qualche timbro di agibilità e di rispetto di quelle norme di sicurezza di cui tutti si riempirono la bocca dopo la tragedia di San Giuliano, per dimenticarsene alla prima finanziaria.
È fatta, alla fine Laura ha ceduto, io mi sforzo di non pensare a che cosa accadrebbe se ci fosse un incendio, ai terremoti non penso perché è vox populi che a Roma non debbano accadere. Però non era così che avevamo immaginato il primo giorno di scuola. Ai prossimi fondi tagliati dalla scuola, vi prego, pensate a Laura. E ai milioni di altri.