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unità-Università alla deriva-di Nicola Tranfaglia

Università alla deriva Sta succedendo nell'università italiana qualcosa che non accadeva da più di trent'anni: studenti, lavoratori tecnici e amministrativi, professori, persino presidi e rettor...

06/03/2004
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l'Unità

Università alla deriva

Sta succedendo nell'università italiana qualcosa che non accadeva da più di trent'anni: studenti, lavoratori tecnici e amministrativi, professori, persino presidi e rettori hanno esaurito la pazienza nei confronti del governo Berlusconi e dell'ineffabile ministro Moratti. Ma sbaglierebbe chi facesse la solita equazione a cui ci hanno obbligato le frasi in libertà del premier e i monotoni e ripetitivi interventi televisivi di personaggi come Schifani e Bondi.
Qui il comunismo e la simpatia maggiore o minore per la maggioranza e l'opposizione di centro-sinistra non c'entrano proprio. Si fronteggiano invece due visioni della vita, del mondo, del destino del nostro Paese. Due visioni profondamente divergenti che riguardano l'intero comparto dell'educazione, della formazione, dell'istruzione ai vari livelli. E se oggi partiamo dal problema universitario non per questo sarà possibile escludere i problemi della scuola di cui si é parlato molto nei giorni scorsi.
Che le cose stiano così si é visto anche martedì scorso quando in una trasmissione televisiva - "Ballarò", condotta da Giovanni Floris su Rai Tre - a molti spettatori (tra i quali chi scrive) é rimasto l'amaro in bocca, non soltanto perché é parso un dialogo tra sordi, ma anche perché molti, a cominciare dal giornalista conduttore, parevano non avere le idee chiare e le conoscenze necessarie. E questo non valeva soltanto per il ministro e per gli esponenti della sua parte politica: era una caratteristica presente, per così dire, in tutto lo studio.
Ad ogni modo, tornando al problema universitario, non c'é dubbio che le assemblee di migliaia di persone che si sono svolte nei giorni scorsi e che hanno portato anche all'occupazione simbolica di numerosi rettorati significhino che esiste alla base, ma non solo alla base, la convinzione che siamo di fronte a una svolta di notevole importanza. Si é diffusa infatti l'idea, supportata da un'analisi circostanziata dei dati a disposizione, che l'attuale governo Berlusconi non ha a cuore la sopravvivenza del sistema pubblico universitario e si muove piuttosto nell'ottica di promuovere la crescita di un sistema universitario privato che in Italia é oggi debole e non sempre (anzi assai di rado) più qualificato sia per la ricerca che per la didattica, rispetto al pubblico. Di qui la fine di incentivi per il miglioramento del sistema, un finanziamento della ricerca e delle università sempre più deficitario malgrado le cifre complessive (non si sa come costruite) che il ministro sbandiera ogni giorno in televisione, la riduzione della ricerca universitaria a triste lumicino, soprattutto (ma non solo) in campo umanistico.
In questo senso il disegno di legge sullo stato giuridico dei docenti sembra rispondere essenzialmente al desiderio di mettere ad esaurimento i ventimila posti attuali dei ricercatori e scoraggiare con il precariato decennale le nuove generazioni. Con il risultato inevitabile che tra dieci anni l'università italiana non avrà più professori in grado di sostituire quelli che andranno in pensione.
Cosa significa una simile politica nell'Italia del ventunesimo secolo? A mio avviso che siamo di fronte all'egoismo di generazioni che non si preoccupano del futuro. È chiaro, infatti, che nelle università private, ammesso che si riesca a costruirne e a migliorare quelle attuali, potranno andare soltanto giovani che dispongono di risorse culturali e finanziarie particolari. Né mi si dica che saranno previste borse di studio per chi non può pagare giacché, per l'esperienza che ho in materia, posso dire che le borse saranno assai meno di quanto sarà necessario per assicurare il minimo di equità tra chi viene da una famiglia agiata e culturalizzata e il resto della popolazione.
Ritorniamo, insomma, a una visione della formazione e dell'istruzione che, partendo dalla scuola media e andando fino all'università, discrimina pesantemente sulla base di criteri economici e sociali piuttosto che sul merito individuale.
Ma se questa è la situazione, è inevitabile porsi una seconda domanda. È possibile accettare una politica caratterizzata dall'egoismo delle generazioni, dalla scarsa o nulla preoccupazione per quello che succederà nei prossimi decenni?
Credo proprio di no e trovo in questo aspetto della questione la ragione per l'unificazione della mobilitazione tra studenti e professori: gli uni e gli altri sanno che una simile politica non é accettabile, pur vivendo situazioni personali assai diverse.
Per quanto riguarda l'università esiste un secondo aspetto, altrettanto allarmante, che va sottolineato. Siamo agli ultimi posti nelle risorse stanziate per la ricerca pubblica e privata. Rischiamo di precipitare, da questo punto di vista, nel terzo mondo in un momento in cui il declino industriale e finanziario dell'Italia é sotto gli occhi di chi non si rifiuta di guardare. E questo malgrado la presenza di ricercatori e di intellettuali che godono di una ottima reputazione a livello internazionale. È possibile che la classe politica, in particolare quella di governo, non si renda conto del danno immenso che questo significa per gli italiani, quelli di oggi e ancor più quelli di domani? Sono interrogativi e questioni a cui dovrebbero dare una risposta il presidente del Consiglio e il ministro. I quali, invece, parlano sempre di dialogo, ma non lo promuovono mai.


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