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Unità-Università, cirtiche a autocritiche

di Ugo Gobbi * Caro Direttore, nella imminenza ormai della approvazione della riforma universitaria, il professor Tranfaglia scrive su l'Unità del reclutamento dei giovani. Benché di gran moda e ...

11/08/2005
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l'Unità

di Ugo Gobbi *

Caro Direttore, nella imminenza ormai della approvazione della riforma universitaria, il professor Tranfaglia scrive su l'Unità del reclutamento dei giovani. Benché di gran moda e denso di pretese nobilitanti, il vocabolo flessibilità significa in realtà precariato, quindi l'intervento di Tranfaglia è, in sé, largamente condivisibile. Ma vi resta fra le pieghe una soprastante questione, circa la quale non sarebbe male se anche i professori universitari compissero una qualche riflessione autocritica. L'Università italiana si regge infatti sulla didattica, sia di molti giovani per età, sia di molti, meno giovani in senso anagrafico ma privi ancora del titolo di professore. Ora, i concorsi universitari si svolgevano un tempo su base nazionale e dopo una parentesi di alcuni anni nei quali si sono svolti su base locale, con la riforma Moratti torneranno su base nazionale. Su base nazionale e nei diversi settori disciplinari - ricordiamo - alcune centinaia di candidati periodicamente si sbranavano per qualche decina di posti. I vincitori avrebbero compiuto il grande salto. Tutti gli altri avrebbero di fatto continuato a fare i professori, nella attesa di un futuro che nemmeno si sapeva se esistesse. Sa Tranfaglia come tutti, almeno nell'ambiente, che nei concorsi a cattedra l'attività didattica conta poco o nulla mentre contano "le carte", cioè gli scritti, la ricerca scientifica. Ebbene, con i concorsi su base nazionale i Commissari ricevevano i voluminosi "pacchi" delle pubblicazioni dei candidati. E se proviamo a moltiplicare qualche centinaio di candidati per una media di qualche centinaio di pagine scritte da ciascuno, vediamo bene che ogni Commissario avrebbe ricevuto e tornerà a ricevere alcune decine di migliaia di pagine, ovviamente difficili da spacchettare, figuriamoci leggerle. Ma se vogliamo dire le cose come stanno, non la durezza quotidiana della didattica e più che la fatica più o meno intelligente, più o meno innovativa della ricerca scientifica, contava nei concorsi a cattedra (e tornerà a contare) soprattutto il verbo "portare". "Chi ti porta?", era la frase decisiva. E si vorrà almeno ammettere che se immeritevoli si sarebbero potuti insinuare nei concorsi su base locale, esattamente nello stesso modo immeritevoli si sono insinuati nei concorsi su base nazionale. Il punto non era dunque e non sarà la tenuta del sistema, ché ogni sistema di concorso, locale o nazionale, è fatalmente soggetto a poter eassere manovrato. Il punto era invece il "chi ti porta" (ovvero il "che dicono nella tua scuola"), a significare che - riformata o no - l'Università non riesce a distaccarsi da certe sue medievali regole. Sebbene però molti eminenti professori universitari intervengano spesso sulle pagine dei maggiori quotidiani, e sebbene si tratti spesso degli stessi che operano nelle Aule parlamentari, nessuno si è mai letto che mettesse in discussione tali regole (se regole sono). Perciò non sembra infondato sospettare che il duro dissenso nei confronti dei concorsi su base locale, celasse, celi in realtà il timore - ma anche qui, mai si è letto qualcuno che sollevasse il problema - che potere fosse sottratto ai pochissimi che in ogni settore disciplinare capitanavano le diverse "scuole". Se quindi si vuole discutere criticamente della attuale privatizzazione dell'Università italiana, occorrerebbe anche discutere della più antica e salda "privatizzazione" dei settori disciplinari, senza comunque dimenticare che il ritorno dei concorsi su base nazionale impedirà quel minimo di "giustizia sociale" che si poteva fare su base locale, esaltando specifiche e riconosciute capacità individuali che altrimenti si sarebbero perse nel grande calderone nazionale. Nel frattempo, e torno a Tranfaglia, il crescente vuoto di didattica è colmato con l'affidamento dei Corsi al personale più giovane e assai spesso non inquadrato. E, sia chiaro, non si tratta di Corsi marginali ma anche fondamentali, che implicano una attività molto intensa a scapito, evidentemente, dello studio e della ricerca. È ben noto nell'Università, che in assenza di questo lavoro di supplenza la didattica si bloccherebbe. E periodicamente, del resto, fermentano fra i giovani desideri di ribellione che rientrano peraltro sempre rapidamente, giacché la speranza in una qualche mitizzata sistemazione esercita un fortissimo effetto deterrente. Questo almeno - se trentacinque anni nell'Università non vi sembran pochi - dice l'esperienza mia: che vi è un popolo di peregrinanti che ha la responsabilità personale di corsi ufficiali di insegnamento; che riceve, per fare ciò, compensi rispetto ai quali i cottimi di fine Ottocento avrebbero già rappresentato una conquista sindacale; che spesso lo fa direttamente a titolo gratuito. Con le parole di Marx, questo foltissimo "esercito universitario di riserva" è necessario alla sopravvivenza stessa dell'Università italiana ma vive e Tranfaglia ha ragione, sperando in un incerto futuro che semmai verrà non si sa quando verrà. Se però vogliamo parlarne, non possiamo omettere che esso è tenuto assai duramente imbrigliato da sistemi di regole e concorsuali largamente indipendenti da qualsiasi genere di riforma. Perciò occorrerebbe un esercizio anche autocritico da parte dei professori universitari. E mi restano ampi dubbi - ma mi rendo conto di essere in scarsissima compagnia - che il vituperato sistema dell'"ope legis" sarebbe davvero peggiore delle "irregolari regole" di sempre.
* Facoltà di Giurisprudenza
Università del Molise