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Unità: Università e scuola, la collaborazione necessaria

Giunio Luzzatto

29/02/2008
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l'Unità

La qualità di un sistema scolastico è in larga misura la qualità dei suoi insegnanti, come viene sottolineato da Marina Boscaino (Unità dell’8 febbraio). Sono indispensabili sia la valorizzazione della formazione in servizio, che implica il superamento di una «carriera» degli insegnanti basata sulla mera anzianità e non anche su riconoscimenti di maggiori qualificazioni progressivamente maturate, sia il superamento della caoticità e della perenne provvisorietà delle procedure che hanno finora governato la loro formazione iniziale e le assunzioni nelle scuole.
È opportuno ritornare, per qualche completamento, su questi due aspetti, formazione e reclutamento, finora disgiunti mentre dovrebbero rappresentare i successivi passaggi di un unico ben definito processo.
Anzitutto, i fatti. In teoria, il reclutamento avrebbe dovuto avvenire attraverso un doppio canale: 50% per merito, tramite concorsi aperti a chi ha già conseguito una abilitazione nelle Scuole universitarie di specializzazione SSIS (a partire dal 2001) ovvero in precedenti concorsi; 50% per anzianità, tramite la progressiva utilizzazione di «graduatorie» nelle quali gli stessi abilitati acquisiscono punteggi legati alle supplenze svolte negli anni. In pratica, le graduatorie hanno rappresentato l’unica procedura, poiché l’ultimo concorso data dal 1999 (e il precedente era del 1990). Le leggi finanziarie 2007 e 2008 stabiliscono un deciso cambiamento e avviano un processo positivo. Per chiudere col passato, cospicue assunzioni in ruolo sulle «cattedre» finora coperte precariamente, al fine di esaurire le graduatorie, nuovi accessi alle quali sono stati bloccati; per il futuro, reclutamento solo attraverso concorsi aperti agli abilitati, e mandato ai Ministri dell’Università e della Pubblica Istruzione per la definizione di un Regolamento circa le modalità della formazione/abilitazione e circa le procedure concorsuali. La crisi di governo ha interrotto quest’ultima fase.
C’è da augurarsi che la legislatura prossima non riparta da zero, come se nulla fosse finora avvenuto. Le premesse per un reclutamento di qualità, tramite regolari concorsi, ci sono; e vi è inoltre, con ombre ma anche con luci, l’esperienza della formazione nelle scuole universitarie di specializzazione.
Le ombre sono la scarsa omogeneità tra i diversi Atenei, e in alcuni casi una insufficiente capacità di puntare sulla didattica, cioè sulle problematiche metodologiche e sulla formazione di competenze educative; in questi casi negativi, i corsi ricalcano i tradizionali insegnamenti sui contenuti disciplinari, che invece - trattandosi di una formazione alla professione per già laureati - dovrebbero essere stati già acquisiti.
Circa le luci, un risultato indiscutibile è che si è attuata, per la prima volta, una reale collaborazione tra università e sistema scolastico; vi sono centinaia di docenti secondari che svolgono parte del loro servizio quali «supervisori di tirocinio» presso l’università, e vi sono migliaia di insegnanti che seguono con impegno gli stage che gli specializzandi svolgono nelle loro classi. Quanto ai risultati della formazione che gli specializzati ricevono, nelle scuole che negli ultimi anni ne hanno già assunto molti si ritiene abitualmente che il loro inserimento nell’attività scolastica registri un netto salto di qualità rispetto all’epoca nella quale si entrava nelle scuole con la sola laurea. Se, dopo anni di dibattito su questi temi, ancora una volta non si è giunti a conclusioni operative vi è certo una responsabilità del sistema politico, lentissimo nel fare scelte e -se possibile!- ancora più lento nel tradurle in atti quando finalmente le ha assunte; ma vi è anche una responsabilità dei mondi accademico e scolastico. L’Università, quale istituzione, non ha considerato un consistente impegno sulla formazione degli insegnanti come uno dei propri doveri rispetto al Paese. Chi opera nel settore è piuttosto isolato, e le strutture interdisciplinari come le SSIS sono considerate di disturbo rispetto agli assetti tradizionali fondati sul potere delle Facoltà. Queste ultime, in alcuni casi, pretenderebbero di tenere al proprio interno, in esclusiva, gli studenti fino alla laurea disciplinare di secondo livello, determinando un percorso formativo (5 anni più i due della formazione specifica) di lunghezza assurda in sé, e senza paragoni a livello europeo.
Solo una piccola parte del mondo scolastico si interessa della questione. Chi lo fa si esprime talora in termini quasi rivendicativi: W la scuola, no all’università, come se il compito della formazione iniziale anche per gli insegnanti non fosse devoluto, istituzionalmente, alle strutture che formano per tutte le professioni. È da auspicare invece, se vogliamo che la situazione si sblocchi, che dalla scuola vengano precise richieste, direi addirittura pretese, sul come l’Università debba operare: puntando a un giusto equilibrio tra discipline e tematiche educative generali, saldando attività formative e ricerca didattica, e soprattutto attuando con le scuole una vera partnership. Ho usato il termine internazionale perché questa è, in tutto il mondo, la linea vincente.