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Unità: Università: la riforma?Meglio radicale

DECALOGO Moltiplicazione dei corsi, autonomie esasperate, eventi spettacolari: le facoltà si mettono in scena e si fanno pubblicità alla caccia di «clienti». Ecco dieci proposte per far uscire l’istituzione dal «berlusconismo»

14/07/2006
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l'Unità

di Giulio Ferroni

Dopo vari interventi precedenti e immediatamente successivi alla formazione del nuovo governo, sembra che dell’università si parli molto poco: salvo che nelle varie guide alla scelta della Facoltà (accompagnate da discutibili classifiche, basate su parametri artificiosi e tendenziosi) e con riferimento alle varie attività promozionali, pubblicitarie, festive messe in campo in vista delle prossime immatricolazioni. Già il fatto che da alcuni anni molte università debbano impiegare le loro energie e le loro risorse per iniziative pubblicitarie, per farsi concorrenza l’una l’altra, la dice lunga sulla condizione attuale dell’istituzione, sul percorso che tende a trasformare l’università in una sorta di agenzia di rapporti, che deve «mettere in scena» scienza e cultura, per giustificare se stessa sulla base dei principi dell’apparenza mediatica. Si tratta di uno degli esiti di quell’evoluzione di cui ha reso conto Paolo Prodi in un acutissimo intervento su l’Unità del 28 maggio scorso: evoluzione che sta dando luogo a nuovi fittissimi rapporti con il mondo dell’economia, della politica, della comunicazione, in una proiezione verso l’esterno che di per sé sarebbe positiva se non finisse per far evaporare la profondità e il rigore della didattica e della ricerca e per far balzare in primo piano tutta una serie di proposte illusorie, legate ai richiami della moda, destinate a catturare studenti (concepiti sempre più di frequente come «clienti»). Questo orizzonte sta creando gravi disastri, specialmente in contesti scientifici e culturali particolari, che sembrano non rispondere immediatamente alla spinta dell’attualità, ma che probabilmente costituiscono il necessario fondamento «di lunga durata» del sapere di un grande paese: senza contare che in alcune sedi tutto ciò si accompagna ad una radicale carenza di mezzi, a intollerabili disfunzioni amministrative, ad un affollamento incontrollato che umilia docenti e studenti, ad una gestione della vita accademica regolata da lobbies interessate perlopiù alla loro persistenza.
Chi, come il sottoscritto, lavora nell’università e si sente sempre più «impolitico», avendo seguito con perplessità le vicende degli ultimi decenni e mantenendo una sua diffidenza verso i sistemi di potere accademico, trova che sarebbe necessario un vero cambiamento di rotta, una sterzata radicale: cambiamento che sia in primo luogo culturale, proprio perché l’università si sta «berlusconizzando», e non solo per gli effetti della gestione morattiana (si legga il libello di Pierluigi Pellini, La riforma Moratti non esiste, edito da Il saggiatore), ma per l’onda lunga della riforma boomerang, che, sulla base di modelli pedagogici acriticamente sottoscritti, è stata messa in atto dai precedenti governi di centrosinistra: riforma che fa acqua da tutte le parti e che trova ancora difensori solo per puro amor di bandiera (come si fa a presentare come un successo il fatto che sia aumentato il numero dei laureati, quando poi questo aumento non è così vertiginoso e peraltro si tratta spesso di lauree scadenti e inservibili sul mercato del lavoro?). Anche se con molta cautela e con qualche diffidenza si può attendere qualcosa di buono dal governo di Romano Prodi e dal ministro Mussi, che si è messo all’opera con serietà e determinazione. Dal mio punto di vista inevitabilmente «impolitico», elenco qui schematicamente dieci punti che mi sembrano essenziali, notando che, per ragioni che dovrebbero essere chiare a chi ha coscienza della complessità del presente, in una società come la nostra (e in un mondo come quello universitario) possono essere decisivi (anche dal più ampio punto di vista culturale) proprio gli interventi determinati su punti particolari, al di là della disastrosa mitologia delle riforme epocali.
1. Semplificazione radicale del meccanismo del 3+2 e dell’articolazione degli insegnamenti in moduli: soprattutto sarà da ridurre l’eterogenea parcellizzazione dei moduli, organizzati da ogni università su basi diverse di crediti e di ore di lezioni: al di là di ogni ingegneria curricolare, andrebbe ricostituita l’unità delle discipline e fissato, per ogni facoltà, un gruppo irrinunciabile di discipline di base, istituzionali, con programmi adeguati e formativi (oggi può succedere ad esempio che per uno studente di Lettere la storia moderna si esaurisca in un modulo sulle colture delle campagne bergamasche del Cinquecento o la letteratura latina in uno sul Pervigilium Veneris, e per giunta in traduzione italiana).
2. Ridimensionamento dell’intero sistema, con decongestionamento reale di alcune grandi sedi (il contrario di ciò che è avvenuto alla «Sapienza», dove si è avuto un decongestionamento burla, con una moltiplicazione di Facoltà per giunta in concorrenza tra loro, con complicazioni amministrative e senza nessuna distinzione di spazi e di strutture) e arresto della proliferazione di nuove sedi pubbliche e private, di succursali e controsuccursali nei centri più diversi, o addirittura di improbabili università virtuali e telematiche (sempre in ogni caso con grande spreco di denaro pubblico, per la soddisfazione delle clientele più varie).
3. Drastica riduzione dei corsi di laurea e dei vari immaginosi curricula: in seguito alla riforma sono stati creati corsi di laurea dalla denominazione accattivante, legati spesso ad effimere mode culturali, illusori specchietti per studenti/ allodole, con la promessa di sbocchi occupazionali evanescenti. L’improbabilità scientifica di certi corsi si appoggia su di una incredibile parcellizzazione degli insegnamenti impartiti (le cui denominazioni indicano porzioni limitatissime delle discipline, trasformano in «materie» settori di studio microscopici), accompagnata e aggravata dalla scarsità di strumenti, di spazi, di personale docente, a cui si crede di ovviare attribuendo valanghe di insegnamenti a contratto.
4. Abolizione (salvo in casi di eccezionale valore scientifico e didattico) dei suddetti contratti, oggi assegnati senza nessun discrimine, per importi molto spesso irrisori ed umilianti, e talvolta a titolo gratuito: i docenti contrattisti si trovano spesso a tenere i loro corsi (e a gestire esami e tesi) senza nessun supporto da parte dell’università, vagando per i corridoi alla ricerca di aule.
5. Pur tenendo conto del principio dell’«autonomia» (che peraltro viene sopravvalutato e che, insieme a qualche effetto positivo, ne ha dati di tremendamente negativi: secondo un tipico costume italiano, l’autonomia si è risolta in corporativismo), occorrerebbe ristabilire la certezza dell’organico nazionale dei docenti delle varie discipline; oggi quando un professore va in pensione succede spesso che il budget relativo al suo posto venga abolito secondo le esigenze dell’ateneo o attribuito ad altre materie i cui sostenitori riescono a farsi valere nei consigli di Facoltà, luoghi ormai di contrattazioni mercantili, di microconflitti, in cui di tutto si parla meno che di cultura e di scienza.
6. Creazione di nuovi meccanismi per il reclutamento: era insoddisfacente il modello del concorso di idoneità nazionale proposto dalla Moratti, ma sarebbe assurdo conservare le «valutazioni comparative» gestite dalle singole sedi, predeterminate in genere attraverso accordi preliminari, con movimenti di promozione interna (da un ruolo all’altro) spesso di illustri sconosciuti e con un’assurda emarginazione delle giovani generazioni.
7. Apertura dell’università a forze fresche, con la creazione di meccanismi di scorrimento (con opportuna selezione) dai dottorati di ricerca alla docenza: necessaria a tal proposito la creazione di ruoli intermedi per le giovani generazioni, senza ricadere nella nefasta e persistente mitologia del «docente unico».
8. Riorganizzazione del sistema dei finanziamenti pubblici delle ricerche, oggi assegnati a diverso livello dalle Facoltà, dagli Atenei, dal Ministero, con l’assurda complicazione del cosiddetto «cofin» (impenetrabile ai profani) e senza reali verifiche dei risultati raggiunti; naturalmente questa questione si collega a quelle della necessaria rifondazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche e di una regolamentazione dei finanziamenti e delle convenzioni con privati.
9. Verifica e riordino del caotico universo delle pubblicazioni accademiche, che si moltiplicano al di là di ogni controllo e di ogni utilità, sostenute dai suddetti finanziamenti: occorrerebbe porre argine alla proliferazione di riviste e di pubblicazioni che in effetti non hanno nessuna vera circolazione, che restano chiuse in circoli limitatissimi (inflitte quasi soltanto a malcapitati studenti) e destinate a mere funzionalità di carriera; forse sarebbe necessario tagliare del tutto i finanziamenti a pubblicazioni cartacee e imporre, in certi ambiti e a certe condizioni, l’uso dell’editoria in rete.
10. Riduzione delle spese e delle attività pubblicitarie e promozionali, dell’incredibile spreco di risorse e di energie per la creazione di «eventi» effimeri e spettacolari, la cui vivacità va spesso a scapito della funzioni didattiche e scientifiche, del normale esercizio delle pratiche quotidiane, in molti casi cadute sotto il livello di guardia.
Mi rendo conto naturalmente che la fissazione di questi punti essenziali (ma altri se ne potrebbero aggiungere, specie per ciò che riguarda la chimera della «valutazione») deriva da un orizzonte «impolitico», non legato a preoccupazioni di potere (mi capita più volte di ribadire che, a differenza di tanti miei colleghi, che magari aspiravano a uffici ministeriali, …io non ci tengo né ci tesi mai: e ritengo davvero salutare il fatto che il nuovo ministro non sia un professore universitario). Credo solo di dar voce alla concreta esperienza del malessere di chi attualmente vive l’università, alla dolorosa coscienza che molti docenti e studenti avvertono della caduta del suo prestigio, della sua riduzione ad agenzia e parcheggio culturale. Se vogliamo che l’università torni ad essere il centro della spinta culturale, scientifica, economica del paese, proiettandola in nuove forme in un orizzonte europeo ed internazionale, c’è davvero bisogno di interventi radicali e concreti, non vincolati a modelli riformistici, pedagogici e istituzionali che hanno fatto il loro tempo: ma certo tutto ciò non potrebbe realizzarsi (ma qui sta un’ulteriore difficoltà) senza adeguati sostegni finanziari, in parte ricavabili, del resto, dall’eliminazione di sprechi e di inutili rendite di posizione.