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Unità-Università, la signora Moratti uno e due

Università, la signora Moratti uno e due GIUNIO LUZZATTO Nei giorni scorsi, vi sono stati per l'Università italiana un non-evento e un evento. L'annuncio, da parte del Ministro Moratti, ...

05/06/2004
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l'Unità

Università, la signora Moratti uno e due

GIUNIO LUZZATTO

Nei giorni scorsi, vi sono stati per l'Università italiana un non-evento e un evento. L'annuncio, da parte del Ministro Moratti, che gli studenti daranno finalmente i voti ai professori costituisce, come vedremo, un non-evento, ma è stato al centro di un battage pubblicitario che ha trovato ampio spazio nei media; un provvedimento che incide nel profondo, trasformandole in modo negativo, sulle strutture didattiche universitarie è invece passato senza risonanza, nonostante una dura contestazione dell'opposizione, nel chiuso della Commissione senatoriale sull'Istruzione.
L'obbligo, per le università, di raccogliere attraverso questionari (anonimi) l'opinione degli studenti frequentanti relativamente allo svolgimento dei corsi non ha nulla di nuovo: in atto già allora, quasi ovunque, quale iniziativa autonoma delle università, esso è stato rigorosamente disciplinato da una legge del centro-sinistra (ottobre 1999). Sulla base della legge stessa, appositi Nuclei di Valutazione istituiti presso tutti gli Atenei presentano relazioni annuali nelle quali vengono analizzati sia le risposte ai questionari, sia i diversi problemi che emergono con riguardo alla significatività delle procedure adottate.
Fermo restando il valore altamente positivo del coinvolgimento degli studenti nei giudizi sul funzionamento didattico dei Corsi di studio, tali relazioni evidenziano l'esigenza di non considerare il "voto" emergente aritmeticamente dalle risposte ai questionari come unico termine di riferimento. Si rischia infatti un effetto paradossale: se novantacinque tra i cento allievi iscritti a un insegnamento ritengono inutili le lezioni così come vengono svolte e perciò non le frequentano, il giudizio sarà determinato dai cinque presenti che, presumibilmente, saranno favorevolissimi visto che sono i soli che apprezzano quel professore. Occorrerebbe perciò pesare le valutazioni tenendo conto del numero di questionari compilati rispetto al numero di studenti teoricamente previsti, e alcune università ci hanno pensato; così come hanno pensato a ulteriori modalità di acquisizione di pareri, anche attraverso interviste ai non frequentanti per accertare le loro motivazioni.
Il Ministro annuncia ora che nel finanziamento alle università intende ripartire il 30% sulla base del parere degli studenti - la novità è questa, non la pratica dei questionari -; ma non c'è traccia di una riflessione su questioni rilevantissime, esaminate nelle relazioni dei Nuclei di Valutazione e delle quali il paradosso sopra citato è solo un esempio. Anche quando l'intenzione è più che lodevole, quella di dar peso, nei finanziamenti, alla qualità del servizio didattico offerto, la politica ministeriale punta solo alla propaganda, anziché partire da un attento e documentato studio del lavoro che da anni è in corso e dal quale emergerebbero ulteriori indicatori: fondamentale, ad esempio, quello relativo al livello di "successo" dei laureati (Banca dati AlmaLaurea). In modo del tutto analogo, il rifiuto di basarsi su una analisi della realtà e la superficialità nella formulazione degli interventi caratterizzano l'altra iniziativa ministeriale, la modifica cioè degli ordinamenti didattici dei corsi di studio quali erano stati definiti dal Decreto 509 del 1999 (il cosiddetto "3+2"). La sciatteria nelle formulazioni raggiunge qui livelli grotteschi (non corrispondenza tra titolo del provvedimento proposto e suoi contenuti, trascrizione identica - nel contesto che oggi dovrebbe cambiare - delle norme transitorie contenute nel decreto del 1999); ma in questo caso neppure le intenzioni erano buone.
Il ministro, pur rinunciando alla cancellazione totale della riforma, auspicata - con la nostalgia per i bei tempi dell'Università per i pochi - da alcuni settori della maggioranza e da alcuni opinionisti, ha infatti trasportato anche a livello universitario la sua volontà di spezzare le strutture didattiche in due filoni nettamente separati, quello "culturale" e quello "professionalizzante". Beninteso, è del tutto ragionevole che le università dosino in maniera diversa, in relazione a caratterizzazioni diverse di ogni singolo curricolo, le attività formative più teoriche o più applicative; ma ciò deve avvenire con quella flessibilità che una adeguata progettazione didattica da parte degli Atenei è in grado di prevedere. Le rigide divaricazioni imposte dall'alto sono invece insensate culturalmente prima ancora che inaccettabili socialmente, come ha rilevato Furio Colombo nell'editoriale di domenica 29.
Va senz'altro riconosciuto che le scelte compiute dalle Università nella adozione dei nuovi ordinamenti didattici, pur valide in molti casi, non sempre e non ovunque sono state le migliori possibili. In larga misura, ciò è dovuto al fatto che le Università stesse sono state chiamate a costruire autonomamente tali ordinamenti per la prima volta dall'unità d'Italia (fino al 1999 c'erano le Tabelle ministeriali prescrittive); e in ogni noviziato le incertezze sono inevitabili. Tra i difetti più diffusi, un eccesso di frammentazione degli insegnamenti e una carenza di interdisciplinarità; al riguardo, alcuni Atenei hanno già avviato, compiuto il primo ciclo triennale, una parziale revisione. Il Ministero avrebbe potuto fornire stimoli ulteriori, sviluppando anzitutto un puntuale monitoraggio degli ordinamenti adottati: i confronti avrebbero stimolato miglioramenti, e in eventuali casi di violazioni delle regole sarebbero stati motivati anche interventi ministeriali correttivi. Si è preferito redigere invece una nuova regolamentazione generale, che in molti punti non solo non corregge errori, ma li aggrava: vengono reintrodotti centralismi e rigidità, si punta per ogni curricolo solo sulle materie "caratterizzanti", escludendo non solo elementi di interdisciplinarità, ma addirittura spazi adeguati per settori scientifici contigui. Nell'audizione presso la Commissione senatoriale il progetto è stato ritenuto dai Rettori "intempestivo, inadeguato nell'identificazione delle priorità, fonte di sfiducia e disorientamento negli studenti". La severità di questo giudizio, e le precise contestazioni del centrosinistra (lodevolmente unitario nella sua azione), hanno costretto la maggioranza a prendere almeno atto del fatto che costringere le Università italiane a reinventare secondo le nuove prescrizioni tutta la loro offerta didattica, ripartendo da zero, sarebbe stata una follia; il Ministro dovrà perciò introdurre "Norme transitorie" vere in luogo di quelle fasulle scritte nel testo governativo. Per l'opposizione si tratta di un parziale successo, ma la questione di fondo resta aperta: se quelli del 1999 erano i "nuovi" ordinamenti didattici, sarà obbligatorio - sia pure con una diluizione dei tempi - sostituirli con gli ordinamenti "nuovissimi" del 2004, oppure questi costituiranno una mera opportunità aggiuntiva per chi desideri adottarli? A parole, il Ministro ha spesso affermato che si tratta di una opportunità aggiuntiva, ma nei testi ha scritto il contrario; la Signora Moratti uno e due, direbbe Pirandello. È da presumere che la scelta finale dipenderà molto dall'attenzione con la quale la vicenda verrà seguita dall'opinione pubblica, e non solo da quella accademica: per la verità, da entrambe le parti tale attenzione è stata finora piuttosto scarsa. Ne va, invece, del destino di alcune generazioni di giovani.