Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Università: la guerra ai fuoricorso è inutile e dannosa

Università: la guerra ai fuoricorso è inutile e dannosa

n un paese agli ultimi posti OCSE per numero di laureati, una politica lungimirante dovrebbe essere incrementare le borse di studio e introdurre dei tutoraggi, non certo chiedere ancora più soldi a chi è già in difficoltà, agnello sacrificale da immolare sull’altare del darwinismo sociale.

29/08/2017
Decrease text size Increase text size
ROARS

Marco Bella

C’è una categoria di studenti contro i quali è in atto un attacco senza precedenti, i cosiddetti “fuoricorso”. Nell’immaginario collettivo, il fuoricorso (che secondo una bufala ricorrente sarebbe una figura esistente solo in Italia) è uno studente mantenuto dai genitori agli studi da mamma e papà che passa il proprio tempo tra okkupazioni e feste di universitari. In realtà, si può andare fuoricorso per una serie infinita di motivazioni, che possono andare dai problemi di salute proprio o di un familiare, o perché semplicemente ci si mantiene agli studi lavorando. Con la riduzione dei finanziamenti pubblici in atto dal 2008, in alcune università le tasse chieste agli studenti erano diventate fuorilegge, in quanto troppo alte in rapporto alla quota di FFO. Gli studenti hanno addirittura presentato un ricorso (successivamente vinto) presso l’ateneo di Pavia. Il governo Monti è quindi intervenuto nel 2012, togliendo il tetto del 20% per le tasse dei fuoricorso. Così come si invoca il finanziamento esclusivo delle presunte eccellenze nell’accademia per mascherare il taglio di risorse complessive, nello stesso modo si colpiscono gli studenti più deboli per nascondere il definanziamento. In un paese agli ultimi posti OCSE per numero di laureati, una politica lungimirante dovrebbe essere incrementare le borse di studio e introdurre dei tutoraggi, non certo chiedere ancora più soldi a chi è già in difficoltà, agnello sacrificale da immolare sull’altare del darwinismo sociale.

C’è una categoria di studenti contro i quali è in atto un attacco senza precedenti: quelli che non riescono a laurearsi nella durata prevista del proprio corso di studi, i cosiddetti “fuoricorso”. Nell’immaginario collettivo, il fuoricorso (che secondo una bufala ricorrente sarebbe una figura esistente solo in Italia) è uno studente mantenuto dai genitori agli studi da mamma e papà che sostiene un paio di esami l’anno e passa il proprio tempo tra okkupazioni e feste di universitari.

La “guerra”, però, ha motivazioni economiche e ideologiche. Secondo i criteri di ripartizione del FFO (fondo di finanziamento ordinario) gli atenei ricevono i soldi anche in base al numero di iscritti in corso. I fuoricorso non portano finanziamenti aggiuntivi, ma pesano in misura minore degli altri studenti sui bilanci universitari. L’importo totale delle tasse universitarie per ciascun ateneo non può eccedere il 20% di quanto ricevuto dallo Stato.

Con la riduzione dei finanziamenti pubblici in atto dal 2008, in alcune università le tasse chieste agli studenti sono diventate fuorilegge, in quanto troppo alte in rapporto alla quota di FFO. Gli studenti hanno addirittura presentato un ricorso (successivamente vinto) presso l’ateneo di Pavia. Il governo Monti è quindi intervenuto nel 2012 con una norma ad hoc nella “spending review”, togliendo il tetto del 20% per le tasse dei fuoricorso. Il risultato è stato che queste sono schizzate verso l’alto in diverse università, senza che ciò portasse a un qualsiasi aumento di servizi.

Quando dall’altra parte della cattedra si siede uno studente per sostenere l’esame non tengo in alcun modo conto della sua storia personale o quanti tatuaggi o piercing abbia. L’esame è il momento in cui si verificano le competenze acquisite: se lo studente ha avuto bisogno semplicemente di ripassarsi le lezioni il pomeriggio oppure ha dovuto studiare mesi e mesi, quello che conta è solo la performance in quel particolare momento. Penso che la stragrande maggioranza dei miei colleghi si comporti in modo analogo.

Più in generale, chi si rivolge a un professionista desidera un lavoro eseguito a regola d’arte. Quanto tempo ci ha messo il professionista ad imparare il proprio mestiere è secondario rispetto al risultato finale. Non c’è alcun motivo per “dare addosso” a una studentessa o studente che ha avuto bisogno di più tempo degli altri per completare il proprio percorso di studio.

Lo studente può andare fuoricorso per una serie infinita di motivazioni, che possono andare dai problemi di salute proprio o di un familiare, o perché semplicemente si mantiene agli studi lavorando o perché disegna bellissime vignette per Il Fatto Quotidiano come il nostro Natangelo. Il tempo impiegato per conseguire la laurea può dipendere, con le dovute eccezioni, molto più dalla situazione economica della famiglia d’origine piuttosto che dalle reali capacità.

Chiariamo subito un aspetto: ben pochi vogliono andare fuori corso. Gli studenti impiegati part time la sera nelle pizzerie del centro sarebbero ben lieti di iniziare un percorso lavorativo qualificato prima possibile. Laurearsi tardi è già una penalizzazione sufficiente: non occorre aggiungerne altre.

Le risposte degli atenei per gli studenti in difficoltà potrebbero essere ben diverse rispetto a un semplice aumento delle tasse. Si dovrebbero piuttosto incrementare le borse di studio e introdurre dei tutoraggi. Questi interventi hanno però un costo immediato, e per la politica che ha come priorità il tweet più condiviso verso l’avversario di turno rispetto alla crescita del paese, i fuoricorso sono l’agnello sacrificale da immolare sull’altare del darwinismo sociale. Così come si invoca il finanziamento esclusivo delle presunte eccellenze nell’accademia per mascherare il taglio di risorse complessive, nello stesso modo si colpiscono gli studenti più deboli per nascondere il definanziamento del sistema universitario. Le studentesse e gli studenti rappresentano però un investimento notevole di risorse pubbliche. Un investimento oculato, perché anche se  loro sostengono solo una parte del costo effettivo degli studi, i vantaggi personali e per la società ripagano ampiamente quanto speso dallo Stato e dalle famiglie.

In un paese agli ultimi posti tra le nazioni OCSE per numero di laureati, una politica lungimirante dovrebbe essere quella di proteggere l’investimento già in corso, ovvero cercare di aiutare gli studenti ai quali manca ancora qualcosa per raggiungere l’obiettivo laurea, ovviamente senza regalargli nulla agli esami, non certo chiedere ancora più soldi a chi è già in difficoltà.

già pubblicato da Marco Bella su Il Fatto Quotidiano