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Università: per chi suona la campana?

Ogni mat­tina nelle scuole della Repub­blica suona la cam­pana d’ingresso per migliaia di stu­denti di ogni età e classe sociale. Da tempo, nel nostro Paese, la cam­pana a morto suona per la cul­tura umanistica

16/02/2014
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il manifesto

Ogni mat­tina nelle scuole della Repub­blica suona la cam­pana d’ingresso per migliaia di stu­denti di ogni età e classe sociale. 

Da tempo, nel nostro Paese, la cam­pana a morto suona per la cul­tura umanistica.

Cosa può uni­fi­care due espe­rienze così diverse, l’una reale, quo­ti­diana, dotata della forza dell’abitudine e l’altra meta­fo­rica, ideo­lo­gica, domi­nante, in assenza (o in occul­ta­mento) di punti di vista differenti?

Le uni­fi­cano per­so­naggi come Andrea Ichino. Strano potere dato ad alcuni indi­vi­dui e a un pen­siero forte di pochi pen­sieri, ben testardi e indi­mo­strati, nono­stante il ten­ta­tivo di dare a que­sti assunti una patina di con­cre­tezza eco­no­mica e di scien­ti­fi­cità. Sì per­ché è il pen­siero di Ichino sull’istruzione pub­blica a met­tere insieme que­sti due momenti. L’idea, cioè, che il Nostro ha dell’istruzione pub­blica e della neces­sità di can­cel­larla nella sua archi­tet­tura pub­blica ed egua­li­ta­ria. Il dise­gno è, in fondo, di voler inter­rom­pere quella con­sue­tu­dine mat­tu­tina in nome del tra­monto di un’ideologia uma­ni­ta­ria e uma­ni­stica: se la cul­tura è una merce come le altre, va trat­tata secondo i para­me­tri di red­di­ti­vità, rap­porto costi/benefici, spese impie­gate nella pro­du­zione che una qual­siasi merce deve mostrare e pos­se­dere per essere pro­dotta e venduta.

Que­sto dato il Mani­fe­sto per la difesa della cul­tura uma­ni­stica, sti­lato da Alberto Asor Rosa, Roberto Espo­sito, Erne­sto Galli Della Log­gia, lo coglie, sep­pur nella forma più tra­di­zio­nale dello scon­tro tra due cul­ture e nella riven­di­ca­zione di una spe­ci­fi­cità ita­liana nella difesa della cul­tura uma­ni­stica a noi con­na­tu­rata. Il nesso merce-saperi, stig­ma­tiz­zato nel Mani­fe­sto, appare come l’estensione del rap­porto di domi­nio del capi­tale anche agli aspetti sociali della vita umana e quindi come neces­sità del capi­ta­li­smo cogni­tivo di appro­priarsi del tempo di stu­dio, di lavoro, di ricerca e di tra­sfor­marlo in merce, in pro­dotti, in dati misu­ra­bili, quan­ti­fi­ca­bili o valu­ta­bili, in ele­menti di scam­bio com­mer­ciale o di auto-imprenditorialità.

Chi lavora nell’università sa già di cosa stiamo par­lando: il com­mis­sa­ria­mento della ricerca e dell’insegnamento uni­ver­si­tari da parte di un pre­sunto ente terzo (ete­ro­ge­stito dai vari mini­stri, da Pro­fumo a Gel­mini a Car­rozza), l’ANVUR, e – col pre­te­sto di misu­rare l’eccellenza e il merito per evi­tare lo spreco e il paras­si­ti­smo – l’imposizione di stan­dard di ricerca, di mediane di giu­di­zio delle car­riere, di indi­ca­tori fissi e nume­rici per man­te­nere aperti o chiu­dere corsi di stu­dio e per­sino interi ate­nei. Pro­prio come si farebbe con un’industria rigi­da­mente ver­ti­ci­stica dove il mana­ge­ment decide gli inve­sti­menti, le delo­ca­liz­za­zioni, la messa in cassa inte­gra­zione, le chiu­sure o le ces­sioni di rami d’impresa.
Nulla può sfug­gire ad una valu­ta­zione obiet­tiva dei pro­dotti, ossia tra­dotto in altro lin­guag­gio ad una toyo­tiz­za­zione del lavoro intellettuale.

Ma la volontà di rego­lare dall’alto non basta ancora a spie­gare la par­ti­co­lare deter­mi­na­zione e il desi­de­rio di destrut­tu­rare e de-costruire la scuola e l’università pub­bli­che per sosti­tuirvi pezzi di scuola e uni­ver­sità sus­si­dia­rie, ossia in cui la logica pri­va­ti­stica viene assunta come parte inte­grante del pro­getto edu­ca­tivo pub­blico. La spe­ci­fi­cità del pen­siero ita­liano domi­nante –a cui abbiamo dato il nome di Ichino, ma tanti altri se ne potreb­bero fare (la cate­go­ria umana dell’economista turbo libe­ri­sta con sin­drome mer­ca­ti­sta)– è di pen­sare l’università e l’istruzione pub­blica di ogni ordine e grado come non più fun­zio­nali all’economia del Paese, e quindi di tra­sfor­mare il diritto allo stu­dio (e in gene­rale tutti i diritti comuni) in un ser­vi­zio che si deve pagare e che deve costare un prezzo ade­guato agli stan­dard sta­bi­liti, agli inve­sti­menti, ai rien­tri eco­no­mici a breve/medio ter­mine. Poco importa se per far que­sto si sacri­fica l’autodeterminazione degli indi­vi­dui sull’altare di una pro­gram­ma­zione auto­ri­ta­ria dei destini sociali e cul­tu­rali delle per­sone (lo sbar­ra­mento del numero chiuso negli Ate­nei) e ci si ipo­teca il futuro. Alla base di tutto, natu­ral­mente, l’idea che in una nazione a basso livello tec­no­lo­gico e in fase di declas­sa­mento nella divi­sione inter­na­zio­nale del lavoro, un livello medio di buona istru­zione, una ricerca tutto som­mato effi­cace, (nono­stante i bas­sis­simi inve­sti­menti nel set­tore in ter­mini di PIL), sono lussi che non ci si può più permettere.

Ed ecco l’intervento dell’ideologia: si costrui­sce un idolo di comodo, inven­tan­dosi una cul­tura uma­ni­stica (e una ricerca di base), disin­car­nata, oziosa, stac­cata dai pro­cessi lavo­ra­tivi reali e un’idea con­trap­po­sta di saperi misu­ra­bili, effi­cienti, dediti a costruire ric­chezze e benes­sere futuro per tutti, magari nel pre­sente solo per le éli­tes con­so­li­date e mono­po­li­sti­che. Una volta costruito que­sto modello, si impon­gono forme di con­trollo dall’alto e non discu­ti­bili se non si vuole essere tac­ciati di pas­sa­ti­smo e di difesa cor­po­ra­tiva. Non fa nulla che que­gli stan­dard siano il rima­sti­ca­mento di pro­ce­dure inter­na­zio­nali ormai riget­tate, un gigan­te­sco affare sim­bo­lico e reale per chi li pra­tica, gestito da per­sone e organi che hanno come sola legit­ti­mità scien­ti­fica quella che si sono dati da soli.

Di fronte ad ogni arti­fi­ciale sem­pli­fi­ca­zione e alla ripro­po­si­zione di imper­mea­bili ripar­ti­zioni disci­pli­nari tra mate­rie uma­ni­sti­che e mate­rie scien­ti­fi­che (spec­chio di quella reci­proca incom­pren­sione tra le due cul­ture che ha con­tri­buito a con­fi­nare il nostro Paese ai mar­gini del dibat­tito cul­tu­rale inter­na­zio­nale), si deve tor­nare a riven­di­care la natura uni­ta­ria e com­plessa delle disci­pline e dei saperi, il legame neces­sa­rio tra la pro­du­zione dei saperi e la loro dif­fu­sione demo­cra­tica, il diritto allo stu­dio gene­ra­liz­zato come una vera e pro­pria fonte di cono­scenza e di sti­molo per la ricerca di solu­zioni in grado di miglio­rare il tasso di vivi­bi­lità media e generale.

Ecco quindi il fon­da­mento della lotta per l’ambiente ritro­vato nei saperi che lo stu­diano, della lotta per la demo­cra­zia e i diritti nelle scienze che li stu­diano e che dal sociale trag­gono esempi e fon­da­menti, del diritto al lavoro inno­va­tivo e social­mente utile, che ha il suo fon­da­mento nelle scienze che lo devono pen­sare. Solo a par­tire da ciò, solo pra­ti­cando ciò, le posi­zioni di difesa dell’università e della scuola pub­bli­che e le prese di posi­zione a favore del loro carat­tere for­ma­tivo e libe­ra­to­rio hanno un signi­fi­cato e pos­sono tro­vare un con­senso nei sog­getti sociali reali.
Su que­sta nostra idea di scuola e uni­ver­sità rite­niamo urgente costruire un momento di con­fronto con tutte le forze in campo (sin­goli, movi­menti, asso­cia­zioni) che non si rico­no­scono nell’attuale gestione dell’istruzione e della ricerca. La pochezza della poli­tica nella difesa della scuola e dell’università pub­bli­che ha dimo­strato che a gui­dare le scelte di que­sta classe poli­tica è qual­cosa che non ci rap­pre­senta.
Le nostre pra­ti­che quo­ti­diane di inse­gna­mento e di ricerca, il nostro lavoro, i nostri studi, la nostra con­sue­tu­dine con gene­ra­zioni di gio­vani e meno gio­vani sono la fonte della nostra legit­ti­mità e legit­ti­ma­zione a discu­tere di uni­ver­sità, didat­tica e ricerca.

Con­si­de­re­remo nostro inter­lo­cu­tore solo chi la smetta di bal­bet­tare e caval­care le parole d’ordine del mer­cato, chi la smetta di con­fron­tarsi con le geo­me­trie di par­tito e i cal­coli elet­to­rali di corto respiro, solo chi sia legit­ti­mato da buone pra­ti­che di costru­zione degli stru­menti legi­sla­tivi e cul­tu­rali del cam­bia­mento, di capa­cità di sin­tesi di istanze diverse. Solo in que­sto caso, solo con que­sti pre­sup­po­sti, siamo inte­res­sati a discu­tere e a rico­no­scere legit­ti­mità d’interlocuzione.

Que­sto pro­cesso non può più atten­dere né è dele­ga­bile. Non venite a par­larci, non ci con­vo­cate ad ascol­tare pro­getti e verità ideo­lo­gi­che per conto terzi, che siano Con­fin­du­stria, illu­stri cat­te­dra­tici al ser­vi­zio delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste della comu­nità euro­pea, gior­na­li­sti in cerca di noto­rietà, “rot­ta­ma­tori” a qual­siasi costo e prezzo.

Solo chi vorrà ascol­tare tutte le voci della comu­nità uni­ver­si­ta­ria, e non solo quelle di una parte che ha scelto un’università di élite e colo­niz­zata dal pen­siero neo­li­be­ri­sta, verrà rico­no­sciuto come inter­lo­cu­tore reale e come espres­sione della volontà poli­tica dei cit­ta­dini. Diver­sa­mente sarebbe un incon­tro tra sordi e noi, invece, vogliamo unire le nostre voci a quelle dei nostri stu­denti, dei nostri lau­reati, di quanti sono mar­gi­na­liz­zati in lavori pre­cari o obbli­gati all’emigrazione. Solo così saremo buoni inse­gnanti, fedeli ai pre­sup­po­sti sociali del nostro lavoro.

Ales­san­dro Arienzo, Uni­ver­sità Fede­rico II, Napoli -
Tiziana Drago, Comi­tato pro­mo­tore Assem­blea Nazio­nale Uni­ver­sità Bene Comune Uni­bec — Ugo M. Oli­vieri, reda­zione rivi­sta “il Tetto”