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Valutazione senza idee

di Benedetto Vertecchi

04/01/2016
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L’affermarsi di atteggiamenti negativi nei confronti della valutazione non è una particolarità italiana. Chi segua il confronto internazionale ha potuto rendersi conto che da alcuni anni cresce un rifiuto che investe sia i modelli, sia le pratiche e lo strumentario valutativo. In Italia c’è stato un evidente tentativo di limitare la portata delle critiche che hanno investito un aspetto così delicato dell’attività educativa, che è consistito nell’assimilare gli argomenti emersi ad altrettante manifestazioni di un rifiuto della valutazione da parte degli insegnanti e delle scuole. Le critiche, secondo i sostenitori di questa linea interpretativa, sarebbero un modo per togliere significato alla valutazione, in chiave difensiva. In altre parole, si lascia intendere, con argomenti più o meno allusivi, che la valutazione potrebbe far emergere l’inadeguatezza delle pratiche didattiche e i limiti organizzativi delle scuole. Indicare i limiti della valutazione equivarrebbe quindi a delimitare una zona franca, entro la quale i soli argomenti accettabili sarebbero quelli espressi dall’interno. A questa chiusura difensiva si aggiungerebbero atteggiamenti tradizionalmente ostili a rendere espliciti i criteri di apprezzamento dei risultati educativi, la cui formulazione sarebbe considerata di pertinenza esclusiva degli insegnanti.

Non sono per niente convinto che le critiche alla valutazione debbano essere considerate un espediente difensivo. E ciò sia perché un simile giudizio è il risultato di un’induzione impropria, che consiste nell’operare su elementi che sono il prodotto di opinioni e non il risultato dell’osservazione dei fenomeni: in breve, si accredita l’opinione dell’ostilità delle scuole e degli insegnanti nei confronti della valutazione (anche, eventualmente, ponendo l’enfasi su casi dei quali si sia avuta effettiva esperienza), poi si estende all’universo un giudizio che afferma il carattere generale di tale ostilità. È questa l’origine di un senso comune, efficacemente rinforzato dai mezzi di comunicazione, che costituisce lo sfondo sul quale si esercitano esperti e opinionisti che il più delle volte tutto ciò che sanno dell’educazione formale è ciò che ricordano dai tempi, più o meno lontani, in cui frequentavano la scuola.

È un senso comune che si combina con interpretazioni proprie di altri settori della vita sociale, e in particolare con la cultura organizzativa di derivazione aziendale. Si collegano a tale senso comune interpretazioni educative che si collocano in una dimensione sincronica e si fondano su relazioni lineari tra un numero limitato di variabili considerate indipendenti e un numero altrettanto limitato di variabili dipendenti. Le variabili indipendenti prese in considerazione sono tali, secondo quest’approccio, da spiegare i risultati che si conseguono attraverso l’educazione e che danno luogo a determinate distribuzioni delle variabili dipendenti: ciò vale sia per le variabili riferibili alle caratteristiche (indipendenti) e ai risultati conseguiti da ciascun allievo (dipendenti), sia per quelle che identificano le scelte didattiche e organizzative delle scuole. In questo secondo caso assumono speciale rilievo variabili indipendenti come le capacità professionali degli insegnati, le scelte di gestione delle scuole, lo strumentario utilizzato. Si capisce quindi quale sia la funzione che assume in un quadro interpretativo così semplificato l’attività valutativa. Collegando opportunamente variabili indipendenti e variabili dipendenti si possono confermare le interpretazioni di senso comune dei fenomeni educativi: i risultati di apprendimento possono essere posti in relazione con le caratteristiche degli allievi (cognitive e affettive), con le capacità professionali degli insegnanti, con l’organizzazione delle scuole. Ovviamente, stiamo ragionando di una valutazione orientata a esprimere giudizi che riguardano aspetti d’insieme del sistema educativo. Nessun insegnante, per quanto sprovveduto sul piano teorico e “ingenuo” su quello didattico, si sognerebbe di stabilire legami sincronici tra le variabili indipendenti e quelle dipendenti che abbiamo menzionato, se non per altro perché comunque la loro conoscenza degli allievi è venuta precisandosi in un tempo di qualche consistenza. È vero che in entrambi i casi la valutazione discende fondamentalmente dal riscontro della concomitanza delle variazioni che riguardano aspetti rilevanti del quadro educativo, ma mentre le valutazioni che gli esperti del momento vanno sostenendo sulla base del senso comune fanno riferimento a distribuzioni osservate in un tempo T compatto, quello in cui sono rilevati i dati, le relazioni tra variabili che sostengono le valutazioni degli insegnanti danno conto di un processo che da T0 arriva a Tn. Da un punto di vista empirico la differenza può essere anche minima, ma da un punto di vista teorico è fondamentale, perché colloca correttamente le inferenze (giuste o sbagliate che siano) lungo un asse diacronico. In altre parole, si apre uno spazio di libertà che costituisce la condizione strutturale per il progresso dell’educazione. Non c’è dubbio che si tratti di uno spazio difficile da occupare: a dispetto di un mezzo secolo di ricerche volte a porre in evidenza il sostrato deterministico delle interpretazioni valutative che fanno affidamento sulla concomitanza delle variazioni che interessano variabili riferite agli allievi e variabili che qualificano l’azione didattica, si continuano a proporre interpretazioni fondamentalmente deterministiche. Il nuovo determinismo è proprio quello che trae argomenti a sostegno della necessaria conseguenzialità tra le variabili che si riferiscono agli allievi (indipendenti) e quelle che danno conto dei risultati conseguiti (dipendenti) da concezioni della valutazione prive di consistenza teorica, ma riproposte attraverso inferenze di senso comune.

Ciò non vuol dire, com’è ovvio, che il determinismo attuale si presenti come quello che, almeno in parte, era stato il bersaglio dell’idea di progresso che ha sostenuto la crescita dei sistemi di educazione formale. Non che le forme del determinismo tradizionale non continuino a riproporsi, dopo una parentesi nella quale sembrava che le opportunità educative incominciassero a essere più equamente distribuite. Gli allievi che provengono da famiglie di livello culturale elevato sono più che mai in evidente vantaggio. Per di più ora, a un buon livello di cultura delle famiglie, deve aggiungersi un’elevata capacità di spesa. Per effetto sia della ridotta attrattività del nostro sistema educativo, sia del modo enfatico col quale si segnala e, spesso grottescamente, si imita quanto avviene sotto altri cieli, e in particolare nell’area anglofona, si è diffusa la convinzione che un alto livello degli studi sia ormai possibile solo fuori dai nostri confini. La conseguenza più evidente che si collega a questa ripresa di determinismo sociale è la tendenza a una divisione verticale delle opportunità educative che si presentano a bambini, ragazzi, giovani. Le opportunità di cui fruiscono gli allievi in condizione di maggior vantaggio sono quelle offerte in istituzioni alle quali si accede se, oltre a dimostrare, attraverso specifiche procedure di ammissione, di possedere determinati requisiti attitudinali, si proviene da famiglie in grado di sostenere il costo degli studi. La copertura ideologica al ripresentarsi del determinismo sociale consiste nell’amplificare la rilevanza dell’apporto della personalità degli allievi al conseguimento di risultati di livello elevato. Tale apporto è considerato un merito, che come tale deve essere riconosciuto non solo dalla scuola, ma dall’intera società. Sul merito si dovrebbe fondare una nuova organizzazione sociale, una sorta di governo dei migliori. È quella che spesso, con pervicace improprietà, si definisce meritocrazia, dimenticando che a questa parola, che compare per la prima volta nel titolo di un libro pubblicato nel 1958 da Michael Young, corrispondeva una sorta di utopia negativa (un po’ sulla linea di altre utopie negative, come quelle di Evgenij Ivanovič Zamjatin, di Aldous Huxley o di George Orwell. La meritocrazia era il preannuncio di un incubo, che non poteva che risolversi in uno sfacelo politico e morale. Sta di fatto che, se pure ci si sottrae alle interpretazioni grottesche della meritocrazia (che lo stesso Young ha fermamente respinto), ciò che resta è solo un ciarpame di senso comune dal quale non può derivare nulla di utile per interpretare i fenomeni educativi e, tanto meno, per valutare una linea di sviluppo dell’educazione.

Fin qui, tuttavia, non ci si allontanerebbe più che tanto da argomenti che nella storia dell’educazione sono tutt’altro che nuovi. Quando si ragiona di merito, ovvero del raggiungimento di traguardi alla cui base c’è un livello elevato di possesso di capacità simboliche, prima fra tutte quelle alfabetiche, si trascura di prendere atto che la parte di allievi che possono essere valutati in relazione al possesso di apprendimenti che presuppongono l’interiorizzazione di competenze alfabetiche va rapidamente contraendosi. Ostinarsi a voler praticare valutazioni degli apprendimenti sulla popolazione scolastica (o su più popolazioni, se l’intento ha carattere comparativo) vuol dire ignorare che lo strumentario valutativo è sostanzialmente privo di significato per la parte di allievi che, già dopo due o tre anni dall’acquisizione delle capacità alfabetiche, mostra che le sta perdendo. I bambini e i ragazzi seguono, per l’inconsistenza di un progetto culturale orientato al corso della vita, una deriva sociale sempre meno attenta al possesso e all’uso delle competenze alfabetiche. Se lo scenario è quello che sta emergendo, ci si dovrebbe rendere conto che occorre rivedere sia i modelli interpretativi, sia le pratiche della valutazione.