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Università di Napoli "Federico II": Mozione del Senato Accademico sul ddl di revisione dello stato giuridico della docenza universitaria

Valutazione del ddl che riforma lo stato giuridico dei professori universitari

26/02/2000
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Università di Napoli "Federico II": Mozione del Senato Accademico sul ddl di revisione dello stato giuridico della docenza universitaria (26/2/2000)

Valutazione del ddl che riforma lo stato giuridico dei professori universitari

Il Senato Accademico dell'Ateneo "Federico II" di Napoli concorda con l'obiettivo dichiarato dal d.d.l. "Disposizioni in materia di stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari", collegato alla finanziaria ed approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 novembre 1999, di provvedere al riordino dello stato giuridico della docenza per dare piena e organica attuazione alle rilevanti innovazioni introdotte nel sistema universitario italiano, in particolare con l'affermazione dell'autonomia degli Atenei e con la riforma degli ordinamenti didattici.

Valuta altresì positivamente l'asserita intenzione del d.d.l. di potenziare l'offerta didattica anche attraverso un impegno continuo e qualificato dei docenti.

Non ritiene però che le misure concrete previste dal d.d.l. consentano davvero di raggiungere gli obiettivi dichiarati ed anzi registrare che nella loro formulazione attuale appaiono incompatibili col principio di una reale autonomia degli Atenei, non contribuiscono a sostenere il preminente interesse pubblico della funzione docente e ad affermare il ruolo strategico dell'Università nello sviluppo culturale e sociale del paese e possono persino condizionare la libertà dell'insegnamento e della ricerca, che pure è sancita dal dettato costituzionale.

Il Senato Accademico non condivide la scelta del Parlamento di sospendere l'esame del decreto legge sullo stato giuridico dei ricercatori, quando era finalmente giunto in dirittura d'arrivo, dopo anni di travagliato e spesso frustrante confronto politico-sindacale, perchè l'istituzione della terza fascia docente non è affatto contraddittoria con l'esigenza di un riordino generale della docenza universitaria.

Sul merito delle proposte contenute nel "disegno Zecchino", il Senato Accademico formula le seguenti considerazioni:

1. Non si solleva alcuna obiezione di principio alla richiesta di un maggior impegno dei docenti, quantificato in 500 ore annue. Si rileva, però, che il d.d.l. quantifica come debito dei docenti solo ed esclusivamente il tempo dedicato alla didattica, senza fare alcun cenno delle altre attività, come se la ricerca e le funzioni di governo dell'Istituzione fossero marginali e comunque nettamente secondarie rispetto all'insegnamento. Il progetto governativo determina infatti quantitativamente l'impegno didattico senza tener conto delle strette relazioni tra didattica e ricerca, della varietà e complessità delle attività ad esse legate e dei compiti organizzativi ed istituzionali propri dell'attività universitaria.
Infine, le norme che regolano le modalità di esercizio dell'attività didattica, così come sono formulate, potrebbero ledere i principi di autonomia degli atenei e di libertà d'insegnamento, nel caso che i relativi regolamenti didattici d'ateneo non forniscano le adeguate garanzie.

2. Anzichè garantire meccanismi di accesso e di carriera della docenza rigorosi ma certi, l'applicazione del d.d.l. comporterebbe di fatto un blocco pressochè totale al ricambio fisiologico del personale docente e serie limitazioni al passaggio da una fascia all'altra.
In primo luogo, la messa ad esaurimento degli attuali ricercatori porterebbe a negare per molti anni alle giovani generazioni di studiosi l'accesso al mondo accademico con l'effetto di rinchiudere le università su se stesse. È evidente infatti che, non potendo più bandire posti di ricercatori, i giovani studiosi che apirino alla docenza debbano puntare a partecipare direttamente ai concorsi per professori associati e ordinari.
Appare però inverosimile che dopo un semplice contratto di tirocinio siano realmente in grado di competere con gli attuali 20.000 ricercatori, che hanno già cumulato una lunga esperienza di studi e di ricerca e che, in gran parte, hanno già maturato i titoli scientifici che li renderebbero meritevoli di un passaggio alle fasce docenti superiori. Il reclutamento dei giovani studiosi risulterebbe comunque fortemente limitato dalle ridotte risorse finanziarie degli Atenei, perchè il passaggio di un ricercatore già in servizio alla fascia di professore associato comporterebbe un maggior onere medio di soli 30 milioni l'anno (e quasi nessun onere aggiuntivo per i primi anni), mentre la nomina allo stesso incarico di un giovane studioso non ancora inserito nell'organico universitario richiederebbe un onere aggiuntivo di circa 100 milioni l'anno. Il risultato inevitabile sarebbe pertanto la creazione, attraverso i contratti di tirocinio, di un precariato destinato ad attendere tempi lunghissimi per la realizzazione delle legittime aspirazioni alla carriera universitaria.
Nè migliori prospettive si aprirebbero per gli attuali professori associati. La legge fissa infatti un tetto per il numero degli ordinari pari al 20% dell'intero corpo docente per ciascuna area disciplinare. Dal momento che l'attuale organico delle università italiane ammonta a 48.000 docenti (12.000 ordinari, 16.000 associati e 20.000 ricercatori), il numero degli ordinari risulta già oggi mediamente superiore del 25% al tetto fissato dal d.d.l. (9.600), col risultato di negare di fatto per un buon numero di anni ogni possibilità di accesso a quella fascia.
Nella predeterminazione dall'alto del tetto dei professori ordinari si nega di fatto l'autonomia dei singoli Atenei. Il passaggio da una fascia all'altra verrebbe inoltre affidato non più ad un'acquisita e dimostrata maggiore maturità scientifica, ma semplicemente al ritmo dei pensionamenti e delle cessazioni dal servizio nelle fasce superiori, il che, tra l'altro, tenendo conto delle minime differenze nell'età media degli appartenenti alle tre fasce, comporterebbe nella migliore delle ipotesi reali prospettive di scorrimento di carriera solo negli ultimi anni di attività lavorativa.

3. Il superamento della distinzione tra tempo pieno e tempo definito, proposto dal d.d.l., si traduce in realtà in un passaggio generalizzato al tempo definito, perchè non è previsto l'impegno esclusivo dei docenti per l'Istituzione ed è invece consentito il libero svolgimento di attività professionali private, sia pure subordinate all'autorizzazione dell'Amministrazione.
L'abolizione del regime di tempo definito, la contestuale autoregolamentazione delle attività professionali e la fissazione di un monte orario annuo per le sole attività didattiche possono portare a disegnare una figura di professore il cui tempo pieno potrebbe realizzarsi attraverso la sola didattica, anche in assenza di una qualunque attività di ricerca.
L'unica valorizzazione di quest'ultima - in una situazione di oggettivo ostacolo al passaggio da una fascia all'altra - potrebbe infatti ritrovarsi nelle valutazioni per la progressione nelle classi stipendiali, che, per il numero di soggetti coinvolti, rischiano di ridursi ad una mera formalità.
Risulterebbe perciò disatteso l'obiettivo di una seria incentivazione della ricerca. Tra l'altro, l'appiattimento della progressione economica nelle classi, in particolare ai livelli più alti, come risulta ad un primo esame, si tradurrebbe in un ulteriore incentivo verso attività extra-universitarie.

4. È certamente condivisibile il principio affermato dal d.d.l. che debbano essere incoraggiate forme d'incentivazione fornendo un riscontro economico a particolari attività che non rientrino negli obblighi istituzionali previsti per legge. È però il caso di notare che il trattamento economico complessivo dei docenti resta affidato alla legge, il che, tenendo conto della prassi di assegnare ai docenti universitari aumenti salariali pari alla media degli aumenti concessi alle categorie del pubblico impiego, si traduce in un progressivo livellamento delle retribuzioni verso il basso. Ad ovviare a questa situazione la soluzione migliore non sembra affatto la retribuzione accessoria prevista dal d.d.l., affidata ad una poco chiara e convincente contrattazione individuale, tra il singolo docente e il Rettore.
È comunque evidente che i fondi per l'incentivazione economica devono essere aggiuntivi rispetto alla dotazione ordinaria degli atenei.

5. Il d.d.l. prevede un aumento del carico didattico imposto ai ricercatori che, al pari dei professori delle altre fasce, sono tenuti ad assolvere attività didattica per almeno dieci mesi all'anno, per 500 ore complessive, ad eccezione, però, delle 120 destinate alle lezioni, esercitazioni e seminari. Si ravvisa la necessità di superare un evidente vuoto normativo e di riconoscere i mutamenti da tempo avvenuti nella condizione dei ricercatori, in parte già sanciti dalle disposizioni delle leggi 341/90 e 4/99.

6. L'autonomia universitaria risulta contraddetta dalle norme fissate dall'alto sull'elettorato attivo e passivo dei docenti alle diverse cariche accademiche, perchè questa materia non è affidata alla autonoma decisione dei singoli atenei. A questo proposito è poi da notare che la riserva degli elettorati attivi e passivi nelle cariche accademiche proposta nel d.d.l. costituisce un arretramento rispetto agli ordinamenti già definiti negli Statuti degli atenei e sperimentati con buoni risultati da diversi anni.
Le modalità di costituzione di organismi ristretti, come le Giunte di Facoltà, devono essere lasciate alla libera determinazione dei singoli atenei. La loro composizione deve tener conto, sia nel numero che nella rappresentanza, delle diverse realtà delle varie facoltà.
Appare poi problematico, nell'attuale realtà, assegnare ai dipartimenti attribuzioni di gestione degli organici, affidate finora alle Facoltà.
Infatti, se da un lato è evidente che la struttura della Facoltà è solo in parte adeguata alle esigenze connesse alla ristrutturazione delle attività didattiche prevista dai decreti d'area, è altresì noto che i dipartimenti sono per lo più multidisciplinari, spesso disomogenei per composizione e tematiche e talvolta soggetti a rapidi mutamenti e, pertanto, strutturalmente poco adeguati ad assolvere i compiti suddetti.
È appena il caso di sottolineare come anche questi passaggi del d.d.l. rivelino un concetto di autonomia intesa prevalentemente in senso finanziario e, quindi, quale strumento di controllo della spesa, vanificando lo sforzo compiuto dai singoli atenei per dotarsi di un autonomo ordinamento.

In conclusione appare pienamente legittimo il timore che l'applicazione del "disegno Zecchino" avrebbe come risultato quello di ingessare l'Università, di impedirle di reclutare nuove leve di docenti per i prossimi dieci anni, di non metterla in grado di incentivare la ricerca e di promuovere forme innovative di organizzazione rendendola perciò incapace di affrontare la sfida delle trasformazioni sociali e produttive in atto anche nel nostro paese.

Le considerazioni sopra esposte contengono alcune linee guida per un profondo cambiamento delle proposte ministeriali allo scopo di dare piena attuazione al principio dell'autonomia degli atenei e di incentivare una sempre più alta qualificazione scientifica dei docenti che sia trasferita nell'attività didattica, intesa nella sua più ampia accezione:

a. Una riforma realmente innovativa dello stato giuridico della docenza deve contribuire a smantellare quanto di centralistico e burocratico permane nell'università italiana. I passi già intrapresi nella direzione dell'autonomia vanno preservati evitando di intervenire su tutto ciò che è materia definibile o già definita per Statuto, come lettorati attivi e passivi, attribuzione dei carichi didattici specifici, modalità di funzionamento e attribuzioni degli Organi accademici. A maggior ragione spetta ai singoli atenei scegliere la tipologia ed il livello dei docenti da reclutare.

b. L'elevazione della soglia dei doveri richiesta ai docenti può essere mantenuta, ed anche elevata, purchè si riferisca all'intero spettro delle attività, dalla didattica con la sua preparazione, alla ricerca documentata, alle attività organizzative ed istituzionali.

c. Il superamento della distinzione tra tempo pieno e tempo definito, nella formulazione del d.d.l., non sembra presentare particolari vantaggi, tali da giustificare l'abbandono dell'attuale sistema, che comunque, concedendo un diverso trattamento normativo e retributivo, sembra meglio rispondere all'obiettivo di favorire uno scambio di professionalità e di esperienze tra il mondo accademico e quello di altre istituzioni pubbliche o imprese private e, nello stesso tempo, di premiare un impegno esclusivo a favore dell'Istituzione.

d. Un'analisi dell'attuale struttura dei ruoli dei professori e dei ricercatori e delle funzioni che essi effettivamente svolgono suggeriscono un'evoluzione dello stato giuridico verso un ruolo unico della docenza, con eguali diritti e doveri, articolato in tre fasce, su più classi stipendiali e con progressione di carriera legata alla valutazione della maturità scientifica acquisita dai docenti e alle attività didattiche, di ricerca e di servizio da essi svolte. I concorsi (procedure di valutazioni comparative) devono perciò rappresentare lo strumento del reclutamento dei docenti e della mobilità e dell'accelerazione delle carriere. All'interno del ruolo lo straordinariato va effettuato una sola volta.

e. L'introduzione di nuove norme deve prevedere una scelta opzionale tra il vecchio ed il nuovo ordinamento.

È appena il caso di ricordare che la richiesta di un maggior carico di lavoro didattico, in particolare per quanto riguarda le ore previste per l'insegnamento frontale, comporterebbe, per non ridursi ad una semplice indicazione o ad una mera petizione di principio, un deciso potenziamento delle strutture edilizie, tenendo conto del cronico stato di sovraffollamento già ora registrato da tanti atenei italiani.

Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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