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INDIRE: i segni del precariato e i NO che sono una differenza

La FLC CGIL chiede all’INDIRE ancora una volta di tornare a discutere.

06/02/2025
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Il precariato non è mai una storiella da raccontare davanti a un aperitivo, neanche quando si conclude per una assunzione a tempo indeterminato. Chi è passato da tanti anni di contratti a termine lo sa, lascia il segno.

Lascia il segno prima di tutto perché spesso inizi a lavorare come precario a un’età, con delle esigenze, e ne vieni fuori che la tua vita è totalmente diversa: sei, sette, otto, nove anni sono passati mettendo in pausa progetti e possibilità, scommettendo sempre di più su una strada incerta che ti impone rinunce, ritrosie, frustrazioni. Giorno dopo giorno cresce la posta in gioco: il tempo investito, la formazione specifica in un posto che difficilmente potrebbe essere riconosciuta altrove, le competenze invecchiate e perse, perché ritenute poco utili o persino dannose. La stanchezza fiacca ogni vagito di resistenza alla richiesta assurda e violenta di reinventarsi periodicamente secondo quel che serve o potrebbe servire.

Il precariato lascia il segno perché ti intristisce e ti convince che la tristezza è il tuo colore, l’unico colore che ti sta bene, e fa più male quando quel colore è risultato di un continuo tentativo di infondere passione, senso, appartenenza alle giornate lavorative, per poi scoprire che in fondo non fa alcuna differenza, siamo tutte e tutti sostituibili, siamo tutti e tutte in attesa, ricattabili e ricattati, minacciabili e minacciati, riciclabili e riciclati.

Lascia il segno anche la modalità con cui si esce dal precariato: a scaglioni, in virtù di combinazioni più o meno casuali di imprevedibili eventi, in competizione dopo aver condiviso una condizione, in gara dopo aver condiviso una pena lunga anni attraversati da gioie, difficoltà, esperienze al solito musicate in tonalità minore perché c'è sempre qualcosa che manca.

Lascia un segno profondo il precariato, un segno che non svanisce quando si ha la fortuna di vincere, sì vincere, un contratto a tempo indeterminato: quanti fili interrotti si possono riannodare, quanta immaginazione è schiacciata dagli anni accatastati, quanto è penetrata in profondità la convinzione di aver meritato proprio questo in fondo, di aver goduto di un privilegio, persino, o di dover dire grazie, addirittura, per quanto è stato concesso.

Ci starebbe bene un biglietto di scuse affianco alla prima firma che supera il tempo determinato, magari con la rappresentazione di ciò che dovrebbe seguire: una carriera di cui beneficiare in tempi sensati e nel rispetto del contratto; un quadro di diritti chiari, cioè che è dovuto, niente di più, ma che a buon cuore si potrebbe accettare a compensazione per la fiducia riposta e troppo a lungo disattesa.

Ci starebbe bene un cenno imbarazzato di scuse per il tanto che si è preteso, per quanto non è stato fatto, per le bugie e le verità confuse, per quella volta che “dovreste protestare e farvi sentire” e per quella volta in cui protestare e farsi sentire “ha messo l’organizzazione in cattiva luce e ora ci controllano ogni cosa”. Ci starebbe bene la promessa di non proseguire allo stesso modo, bensì agire, trasformare ogni decisione per chi precario è rimasto e aspetta da tre, quattro, cinque, sei, sette anni: perché la richiesta di lavoro diventi ragionevole motivo di investimenti stabili, responsabili, nelle mani di chi è pagato lautamente per programmare, organizzare e proteggere il lavoro e non per comprare e vendere il tempo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Il precariato è alle radici di INDIRE. Fino al 2013-14, al termine dei primi dolorosissimi concorsi, nessuno aveva stipulato un contratto a tempo indeterminato con INDIRE: un ente, ci spiegavano allora, che nel 2005 festeggiava i suoi 80 anni dal primo vagito fascista, ma non aveva ancora assunto impegni per il futuro con chi lo stava costruendo. Poi ci sono state le prime assunzioni nell’ente di ricerca e da allora la crescita del personale: sempre con lo stesso meccanismo, a scaglioni, in virtù di combinazioni più o meno casuali di imprevedibili eventi, in competizione dopo aver condiviso una condizione, in gara dopo aver condiviso una pena.

Oggi siamo quasi quattrocento all’INDIRE e quasi tutti abbiamo un segno addosso: il segno di chi ha attraversato un lungo precariato che somiglia tanto al segno di chi è ancora precario. Però, non si può negare che esista anche una storia dal segno diverso, quella di chi sorride a raccontare il precariato degli altri e sembra di non poter smettere di farlo, quello di chi ha incarnato il tempo ciclico del rinnovo senza fine, quasi da far sentire ogni povero interlocutore al cospetto della Natura nei panni di un malcapitato islandese (di leopardiana memoria).

Con la semplicità di chi ha chiara percezione della propria finitudine a questo cospetto, noi di FLC CGIL pensiamo che il sindacato debba rifarsi alle carte, ai documenti, dare valore agli impegni, perché nella nostra esperienza del tempo abbiamo necessità di raggiungere una coerenza, di non disunirci: siamo lavoratori e lavoratrici che si tengono insieme nel sindacato. Se ci sono accordi che tradiscono gli impegni noi non possiamo firmarli. Se il dialogo è faticoso non offriamo una scorciatoia. Ci prendiamo cura del tempo in comune, perché sempre di tempo si tratta se per la Legge Finanziaria del 2021 INDIRE riceve più di 800mila euro destinati alla valorizzazione del personale tecnico amministrativo, li riceve nel 2022, nel 2023 e nel 2024 e di questo denaro non si rende conto.

Al CNR, l’ente di ricerca più grande del nostro Paese - un paese che deve fare i conti con il tempo e resistere proprio alla tentazione di tornare indietro al suo terribile passato - quei soldi restano in attesa di arrivare nelle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici. Non è un arcano da alti consulenti. Si legge nel Bilancio di previsione all’Avanzo vincolato del CNR, a pagina 20: “Fondo valorizzazione IV-VIII (quota 2024-2023-2022) art. 1 comma 310 lettera c) L. 234/2021“ con l’importo corrispondente.

Nel Bilancio di INDIRE, né alla medesima voce né in altri punti del documento, di questi soldi non c’è enunciazione. Dove sono finiti?

Se il tempo ciclico dell’ingiustizia è la proposta, NO è la nostra sola risposta. Bisogna prima o poi che qualcosa accada a interrompere la reiterazione che ci ha fatto essere precari e sentire precari, che ci ha persuaso di non aver voce se non per dire “grazie”, che ci ha abituato alla gara dopo la pena, per poi trovare altra pena ancora.

La FLC CGIL non offre scorciatoie. Attendiamo una nuova convocazione dell’amministrazione per discutere di queste risorse e di tutte le altre questioni in sospeso, per chiedere la stabilizzazione di chi è da tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove anni all’INDIRE, per gli art. 54 che si possono già fare, per tutto ciò che può migliorare la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. 

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